Mimesis, tre interpretazioni: Lisippo, Van Gogh, Mishima

febbraio 29, 2008

Lisippo aveva ben presente la questione mimesis (e ciò che essa sottende, specie nel dibattito estetico e artistico) quando sosteneva che gli antichi ritraevano gli uomini come sono, lui invece come sembrano (essere e sembrare, termini che investono la mimesis, ma anche concetti e tematiche quali: filosofia, natura, psicologia, percezione, ecc.); mettendo in campo il dilemma se l’arte restituisca un’immagine aderente alla realtà (sia manifestazione di essa), oppure se sia semplicemente un simulacro (e come tale fuorviante, incompleto) della realtà.

 Van Gogh in una lettera al fratello Theo di fine ottobre 1885, si interroga su mimesis e colore: “ebbene si perde l’armonia generale dei toni della natura con un’imitazione penosamente esatta; mentre la si mantiene ricreando una gamma cromatica parallela che può non essere precisamente quella del modello, o addirittura ben diversa […] supponiamo che io dipinga un paesaggio autunnale, degli alberi dalle foglie gialle […] che importa se il giallo è lo stesso di quelle foglie o meno? È cosa di ben poca importanza.” Più avanti riferendosi al dipinto di Veronese le nozze di Cana “il colore in sé non vuol dir nulla, non se ne può fare a meno, lo si deve impiegare; quel che è bello, realmente bello – è anche giusto […] Veronese sullo sfondo usa bianco perlaceo ed azzurrino, che non ci sono in primo piano. Li profonde nello sfondo ed era giusto farlo […] tutta quella architettura e il cielo sono convenzionali, dipendono dalle figure, sono calcolati per far spiccare le figure. È quella davvero la vera pittura e il risultato è più bello dell’esatta imitazione delle cose. […] Studiare la natura, combattere la realtà […] Si inizia con un’impari lotta per seguire la natura e tutto va male; si finisce con il creare tranquillamente dalla propria tavolozza e la natura va d’accordo e segue ciò che si fa […] la lotta, anche se può sembrare futile dà intimità con la natura, e una conoscenza più profonda delle cose.” 

Yukio Mishima in “Il Padiglione d’oro” scrive a proposito dell’Ikebana (in stile kansui) – fiori ed erba risultavano trasformati da come sono in come dovrebbero essere: i fili di gattinara e gli iris non erano più anonimi rappresentanti delle rispettive specie, bensì chiara e diretta manifestazione di quel che sembrava essere la loro vera essenza -. Qui, addirittura, Mishima afferma che i fiori ricomposti in una dimensione artistica assumono un senso (solo allora), esprimono la loro vera essenza, cosa che in natura non riescono a fare con la stessa intensità, forza e coerenza. Il concetto espresso da Mishima (in realtà è più sottile ma lo spunto, anche così ridotto, rimane comunque interessante) si chiarisce tenendo conto della relazione tra ikebana e buddhismo zen (di cui l’ikebana ne è una manifestazione ed espressione artistica). Attraverso lo schema composto nelle composizioni floreali si creano le condizioni formali necessarie perché emerga la natura dei fiori, se si vuole il cuore dei fiori (hana no kokoro). L’ikebana infatti è una sorta di distillato della natura, il cui senso, le cui qualità nella realtà sono difficilmente percepibili in quanto tali qualità non possono essere colte nelle caotiche relazioni che rami, fiori, erba intessono in natura (ad esempio: un campo è pieno di fiori, una foresta piena di rami che si intrecciano, ecc.). Invece l’essenza dell’iris di Mishima, si esprime nell’ikebana che (attraverso il vuoto) riducendo la quantità di elementi percepibili, aumenta la possibilità di coglierne il senso con forza ed intensità.