Giudizio sospeso: David Lynch come Paul Auster

marzo 30, 2008

Questa notte (orientativamente verso le 23.30) Rete4 trasmetterà quello che da molti è considerato il capolavoro di David Lynch “Mulholland Drive”.

Lynch per certi versi mi fa pensare allo scrittore Paul Auster, un parallellismo più che di natura formale, cioè che attine alla loro poetica, alla loro ricerca estetica, che riguarda il mio atteggiamento verso le loro opere. Esistono dei punti di contatto tra i due: Lynch propone delle storie spesso con accenti surreali, soprattutto mai scontati, inaspettati, calati in un clima onirico, strutturati su di una narrazione labirintica, complessa, non immediatamente percepibile-evidente; questi stessi elementi si ritrovano in Auster, penso ad esempio alla Trilogia di New York, Travel in the scriptorium, Leviatano. La differenza è che se entrambi hanno un forte potere sul fruitore delle loro opere, che deve necessariamente a loro affidarsi per “capire”, alla mano di Lynch nella regia, a Auster e alla sua scrittura, Lynch non fa mai da guida, lascia il percorso libero, Auster questa responsabilità se la assume, seppure il lettore abbia comunque ampia libertà e rimangano sempre dei fili sospesi nella storia, su cui noi dobbiamo intervenire per colmare alcune lacune (funzionali chiaramente alla storia, non superficialità dello scrittore). In entrambi i casi il ruolo dello spettatore da inizialmente passivo, perché disorientato, deve poi diventare attivo per addentrarsi nelle storie presentate dai due autori, lo spettatore deve mettere in campo la prorpia sensibilità, curiosità, fantasia, cultura ecc. per cercare di dare un senso a ciò che legge o vede (resta aperta la questione se poi a tutti i costi sia necessario cercare un senso razionale e coerente alle opere dei due).

Eppure affrontando Lynch ed Auster, mi pongo la domanda di quanto ci sia di geniale nelle loro opere e di quanto non si tratti di un delibato, esibito, gioco intellettualistico. Sintetizzando: geni o cazzari? O meglio, geni o abili artigiani?

L’idea è che Auster non stia raccontando una storia, ma intelligentemente costruendo un libro; non una trama che presenti un contenuto fatto di emozioni, necessità, personaggi, fatti ecc. ma il cui scopo è presentare Auster, la sua cultura, l’abilità dell’autore che ammicca tra le righe, che appare e si eclissa, in cui le storie sono un continuo intrecciarsi di rimandi, citazioni, non solo di altre opere ma anche creando percorsi interni al libro stesso, ossia una struttura labirintica che gira su se stessa e si apre all’esterno, e che si scopre senza mai svelarsi del tutto. Una storia strutturata su Auster in cui i fatti narrati sono solo un congegno per rendere lo svelamento/scoperta più divertente. La trama non è il centro e lo scopo della narrazione, è solo una strumento, una maschera. Un gioco raffinato, ma pur sempre un gioco e la sensazione è che alla fine io non abbia ricevuto molto dall’autore, che forse più che leggere una storia io abbia partecipato ad una lezione di scrittura.

Per Lynch invece mi pongo il problema di quanto di suo egli riesca ancora a mettere nei suoi film (in senso di ricerca estetica) e di quanto invece non sia ora prigioniero di quell’immagine (etichetta se si vuole) che la critica ha su di lui costruito, di quanto insomma egli non reiteri, esasperandoli, gli stilemi che l’hanno reso famoso, o quantomeno riconoscibile, muovendosi e districandosi in quel confine tra genialità, irrisione di sé e degli altri che gli hanno dato un’identità riconoscibile (ma che forse non gli può appartenere). Quanto egli è prigioniero di quest’identità cristallizzata, e quanto invece libero? Parrebbe che Lynch se ne svicoli, che ogni volta sia in grado di reinventarsi, di stupire.

Non avendo sufficienti elementi il mio giudizio resta sospeso. credo siano due autori che non hanno bisogno di essere compresi o analizzati, o li si ama visceralmente o meglio cambiare aria.