Flaming youth, part 3

marzo 20, 2008

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Tira più un pelo di… che cento buoi. Volgarmente, tre esempi di letteratura al femminile con un pizzico di sesso, giusto per riesumare un sentore di sapore da una minestra riscaldata: ed ultimo “Carmel” di Gwendoline Riley. Qui c’è pochissimo sesso, anzi quasi niente, ma già l’idea di mettere l’autrice carina in copertina funziona. Le dichiarazioni dei critici in quarta di copertina sono improntate a grande entusiasmo, ma chi ha un minimo di confidenza con l’editoria sa quanto valgano questi giudizi. Se si butta un occhio in giro in internet tra i lettori, il libro non viene trattato benissimo. Ora, il mia approccio a Carmel richiede una spiegazione: lavoravo sull’inferno di Dante e leggevo Mishima, intanto nelle trasferte in treno per raggiungere l’università buttavo un occhio a Carmel. Il richiamo dell’autrice messa in copertina aveva funzionato anche con me, d’altronde, e veniamo al titolo del post: tira più un pelo di… che cento buoi. Dicevo, aveva funzionato perché nella scala evolutiva appartengo ad una specie umana situata un gradino più basso della media, noi viviamo d’istinti. E così terminato di leggere il libro il primo istinto fu quello di lanciarlo dal finestrino, accompagnandone il volo con un “ma vaffan…”. Qualche tempo dopo iniziai a leggere Bukowsky e, come molti altri, tramite lui Fante. Non so perché ma già che c’ero decisi di rileggere Carmel (credo sempre attratto dalla copertina) riconsiderai con maggiore tolleranza, o meglio, rilessi con più attenzione oltre la superficie e devo dire che il mio giudizio cambiò, che tutto sommato se non è l’opera del secolo, Carmel è meno peggio di tanti altri. Che magari le considerazioni fatte dalla protagonista non sono così scontate, né lo è la sua vita, che i personaggi che la circondano hanno senso e spessore, che rappresentano l’ingranaggio di una realtà volutamente grigia, lo stesso grigiore dei marciapiedi viscidi di pioggia di Manchester (evocativa e ben descritta la sequenza con lo scheletro dei palazzi in costruzione), e sembra di poter annusare e vedere la città, fin quasi di capirla e di comprendere chi vi abita. Ci si sente partecipi di quelle vite che si consumano in un apatico oblio: giovani seduti sullo sgabello di un pub, in un certo modo sconfitti, o solo disillusi, eppure quella rappresentata è un’umanità viva, che pulsa, che freme. Un’umanità che si trascina, che galleggia attraverso la città, guidata dalle sue passioni e dalle sue nevrosi, tutti insieme eppure estranei l’uno all’altro, non necessari, compresi in un mondo da cui gli altri sembrano essere esclusi. Carmel è come loro, è una ragazza che per tirare avanti fa la cameriera, che vive perché deve vivere, sentendo il peso della vita, ma senza da esso farsi schiacciare e così può amare, può ubriacarsi alle feste e divertirsi ballando, può passeggiare e adora la musica, come ogni altra ragazza, ma coglie la realtà filtrandola attraverso un originale punto di vista. Riesce ad essere anche romantica e leggera senza per questo scadere nello stucchevole o nella più bieca retorica. Uno stile asciutto che sa essere anche evocativo e coinvolgente, non ovvio come apparentemente sembra il libro che deve essere trattato con attenzione e senza pregiudizi di sorta; e che forse assume un significato anche se lo paragoniamo a molta della produzione coeva pretenziosa, o apertamente banalotta. Credo che nella Riley ci sia qualcosa di più.