Più nero di una mora/che s’i’ fosse fuoco arderei ‘l mondo

febbraio 18, 2008

La prima citazione è da François Villon (Parigi 1431- dopo il 1463 non se ne hanno più notizie) che qui faccio accompagnare da una seconda di Cecco Angiolieri (Siena 1260- morto di sicuro prima del 1313): incazzati neri, perché la loro anima è meravigliosamente nera. Basculando tra il divertito gioco formale e una disgregante, eversiva lezione filosofica sulla precarietà dell’esistenza, la cui consapevolezza porti ad una piena accettazione della vita:  

“Rimpiango il tempo della giovinezza/ in cui ne ho fatte più di tutti gli altri” (Villon).

 Interpreti del male di vivere, dell’insofferenza della gioventù di ogni epoca, ecco i due senza Dio, né valori: perché preoccuparsi, a che serve pregare, perché essere moralmente sobri, appena uno ha due soldi che deve fare? Villon consiglia di spendere tutto a puttane (Cecco preferisce fanciulle giovani e leggiadre, ci lascia volentieri le vecchie e le zoppe) e in taverna, chiaro che in quella taverna troverà Cecco, drammaticamente sempre senza soldi, che a fior di denti si lascerà scappare:  morisse quel taccagno di mio padre così potrei ereditare (tema ricorrente nella sua poesia, la morte del padre come annientamento del potere e delle sue norme). Effettivamente Cecco alla morte del genitore ereditò e fece ciò che da lui ci si potrebbe aspettare, dopo una vita turbolenta morì in miseria sperperando il patrimonio di famiglia. Anche Villon visse un’esistenza fuori dall’ordinario: conseguì la laurea a Parigi, intanto partecipava alla vita sregolata dei gruppi studenteschi (scontri con la polizia erano all’ordine del giorno), fu accusato di omicidio, fu esiliato, fece il bandito ecc. Rimane lacunosa la ricostruzione della sua vita, che possiamo arrischiare basandoci sui documenti dell’epoca (in particolare quelli giudiziari). C’è però chi afferma che il Villon criminale non deve identificarsi con il Villon poeta, nel senso che si tratterebbe di due distinte persone. E da qui allarghiamo il discorso, mettiamo i puntini sulle i: per carità, dato il periodo, il discorso provocatorio per questo tipo di poesia spesso è un gioco letterario (la tradizione goliardica ampiamente documentata nel medioevo), attenzione a sovrapporre l’immagine del poeta e la sua vita alle poesie che scrive, trasformandolo automaticamente nell’archetipo dell’artista maledetto. Le loro sono spesso esagerazioni in chiave parodia, dissacrazioni letterarie di contemporanei modelli orientati su registri più elegiaci, sublimi ecc. Ad esempio per Cecco il bersaglio sono le rarefatte atmosfere stilnoviste. C’è una differenza precisa con i poeti maledetti dell’Ottocento in quanto quelli attraverso la poesia esprimevano chiaramente il loro malessere esistenziale, sentendosi rifiutati da una società che non li accettava. Bene, compitino svolto, questo mi imponeva di dire la mia parte razionale, e io le rispondo fun-cool.Voglio arbitrariamente considerare solo la dimensione del lettore, non quella della verità storico-critica, e non mi va di essere intellettualmente onesto, dico che in fondo non mi importa, che voglio avere il diritto di immaginare Cecco e Villon esattamente come escono dalla loro poesia, e che la loro poesia sia espressione diretta di quelle vite, di quei sentimenti:  

“un sì bel fiore d’ingegno e gioventù, appassito dalle mortifere spirazioni dell’odio” scriveva di Cecco il critico D’Ancona nel 1874. 

Trovo nelle loro poesie una tale gioia di vivere (persino nel più malinconico Villon) perché non c’è niente di più sentito e catartico di assecondare un desiderio; niente di più sentito e catartico nei momenti neri di un insulto, di un vaffanculo cosmico (e tra l’altro non c’è niente di più sincero di un insulto). Per un attimo potersi liberare da costrizioni morali e auto-imposti sensi di colpa oltre ogni misura, certo, non per ammazzare qualcuno ma per mandarlo a quel paese almeno, è un’operazione utile sia per chi la fa, sia per chi la riceve (non ho volutamente usato subisce, perché anche un insulto ricevuto è un’informazione catalogabile ed utile, possiamo orientarci meglio nel rapporto con gli altri: sinceri si dicono gli amici, ma sinceri sono solo i nemici, scrisse Shopenhauer). E più in generale ogni tanto disattendere a ciò che gli altri si aspettano da noi, o trasgredire  ad una regola fa bene alla salute, fa bene al morale. Giusto per non doversi chiedere con mille rimpianti, nel momento in cui la nostra anima uscirà dal corpo e ci guarderemo in faccia: ma tu per chi hai vissuto, per te stesso o per gli altri, per cosa hai vissuto, perché ti sei talvolta mortificato senza ragione profonda? Ma tu in fondo hai vissuto? Pensa ora che giaci lì: che fine hanno fatto le nevi dell’altr’anno? Mais ou sont les neiges d’anten?