Pietà in atto

febbraio 20, 2008

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È la rappresentazione evidente di un fatto potenzialmente tra i più traumatici per la coscienza dell’uomo: la morte di Dio. E parto da qui chiedendomi dove risieda il fulcro della fascinazione che esercita in ognuno di noi quell’evento. Lungi dal darne una spiegazione psicologica, che va oltre la mia portata, sottolineo un dato, una mia riflessione: forse il fascino deriva dal fatto che con evidenza ci rendiamo conto che l’uomo è in grado di uccidere Dio, e forse di non provare rimorso, di liberarsi di un peso, di trovare una nuova forma di libertà, anche se poi bisogna tenere a mente ciò che scrisse Nietzsche, ossia, che uno schiavo liberato dalle catene cerca subito di fabbricarsene di nuove. Lascio abbozzata l’idea, poco meditata, giusto come spunto e passo a una rapida campionatura. 

La Pietà di Tiziano del 1575 (1) è  un dipinto di forte impatto emotivo, appartiene all’ultima produzione del maestro che non lo finì e l’aveva pensato per la cappella di Cristo ai Frari in cui doveva essere tumulato. In seguito la Pietà non vi venne collocata. Il dato evidente è la partecipazione emotiva che questo quadro richiede a chi lo guarda, si viene come risucchiati nei colori stesi con una pennellata sommaria, densa, quasi materica, ideale nella rappresentazione del dolore che diviene qualcosa di universale, lo sentiamo, è nostro come del pittore. Stupisce l’intensità, il bianco della luce simbolica che prorompe dal corpo di Cristo morto e si allarga nel bagliore dell’edicola investendo la figura di Maria. Avviene in Tiziano uno scarto, un cambiamento di stile che rispecchia quella perdita di fiducia che investe molti artisti nel passaggio convulso tra una fase di aperta speranza intellettuale inaugurata dell’umanesimo, attraverso il rinascimento maturo, e che poi se non si concluse quantomeno si attenuò con la controriforma.  

Pietà Rondinini di Michelangelo 1552-64 (2). Il periodo è lo stesso della precedente, attiene all’ultima fase di vita di Michelangelo, altro dato comune: allora lo scultore era impegnato per la realizzazione di sculture da sistemare per decorare la propria sepoltura. Non essendo quindi pensata espressamente per un committente ha maggiore libertà d’azione e l’esito è straordinario. Questa Pietà è una scultura che non si può collocare chiaramente nel suo tempo, non vi troverebbe spazio, non vi è ricerca di perfezione formale, non vi è la levigatezza e l’eleganza di altre opere dello stesso Michelangelo. C’è un’operazione concettuale di fondo: Michelangelo ritiene che il suo compito sia quello di tirare fuori dal blocco di marmo una forma che in esso è imprigionata “scolpire per forza di levare”. Perciò quest’esempio di Pietà non deve considerarsi come un abbozzo non finito, per Michelangelo esemplifica l’atto stesso del creare, fissa per sempre l’attimo del processo creativo in cui con fatica la forma esce dal marmo, è in atto il dissidio tra spirito e la materia che lo contiene (neoplatonismo) e queste forme escono con intensità emotiva straordinaria, seppure siano appena sbalzate. Possiamo recuperare ciò che Vasari scrisse riguardo la più nota pietà di S. Pietro “perché si scorge in quella tutto il valore et il potere dell’arte”. Oltre il significato del soggetto, qui Michelangelo rappresenta umori, difficoltà e significati profondi del fare arte, e più in generale dell’arte stessa. 

Caravaggio “Deposizione” 1604 (3). Prima tra le pale d’altare eseguite a Roma, il fatto di realizzare un’opera così impegnativa fa sì che lo stile dell’artista debba evolvere, o quantomeno mutare. Più che da commentare questa è tutta da guardare. Che dire se non ciò che risulta sempre valido per un’opera come questa: il contrasto luce-ombra fa emergere con evidenza la plasticità monumentale del gruppo di figure, che non si traduce però in secchezza o rigidità, le forme sono morbide. La composizione è dinamica nel movimento che parte dalle braccia sollevate di Maria di Cheofa, per concludersi sul corpo di Cristo con il braccio che sporge a toccare la pietra del sepolcro. C’è una dicotomia tra luce ed ombra che è la stessa che c’è tra vita e morte, è questo contrasto che affascina è come si costruiscono ed emergono le figure che sembrano mutuare lo stesso procedimento della Pietà Rondinini; e al valore più intellettuale della luce fa da contrasto il realismo dei particolari come il brano della gamba del S. Giuseppe d’Arimatea. Eppure anche questo dipinto così violento nell’impostazione è un brano di dramma intimo, quasi slegato dal resto del mondo che lo spettatore con evidenza vede posto sotto gli occhi e può farlo proprio senza indugio, senza distrazione. C’è un gusto che diviene quasi voluttà nell’avvicinarsi alle opere di Caravaggio. 

“Morte di Marat” di David 1793 (4). Rispetto alle precedenti questo dipinto può sembrare fuori tema, una stonatura apparente, come in un’improvvisazione jazz quando si insinua una nota acida che pare estranea al tessuto della melodia, ma non lo è in realtà, perché tutto viene ricomposto in un ordine armonico superiore. Due sono le caratteristiche precipue che per me avvicinano (con le dovute cautele, certo) quest’opera ad una Pietà: il senso di abbandono nella morte, e l’intimità priva di retorica nella drammatica rappresentazione. Non solo intimità data dall’ambientazione scarna, ma si crea tra soggetto Marat e riguardante lo stesso muto, intimo, rapporto che c’è tra la Madre ed il Cristo. Ci siamo solo noi e Marat. L’intimità acuisce la partecipazione emotiva al dolore che così, come per la Pietà, sentiamo nostro. David in questo caso ha il merito di rappresentare il tragico nella cruda realtà delle cose, niente celebrazione, niente retorica. Ecco il dato del particolare realismo con cui viene raffigurata la trave di legno: le venature, i buchi, i chiodi; ecco l’abbandonarsi del corpo senza gusto narrativo che avrebbe svelato il meccanismo della rappresentazione, nel senso di “mettere in scena” ad esempio del teatro. L’evidenza della morte è data dal fondale piatto, privo di profondità o dettagli che sfuma verso l’alto; dal contrasto ombra luce, così si passa immediatamente dal corpo-essere al non essere del fondo e la linea della tinozza è il confine che li divide. C’è poi un particolare iconografico, l’abbandonarsi del braccio che rimanda a molte rappresentazioni della morte di Cristo (è richiamo esplicito del precedente dipinto di Caravaggio), creando un parallelo di significati meta-artistico.