Dì, amico, dove stai andando?

aprile 30, 2008
Poi si è voltata verso il barista e gli ha ordinato altre due birre. Io mi stavo tenendo da conto la mia, ma a quel punto l’ho scolata tutta, pensando che magari mi avrebbero offerto un giro. Non lo fecero.
“Che combini?” mi ha chiesto la prima donna
“in questo momento niente” ho detto “qualche volta, se posso, studio”
“studia” ha detto lei all’altra “è uno studente, dov’è che studi?”
“in giro” ho risposto
“te l’avevo detto, no?” ha detto lei “che aveva l’aria di uno che studia”
“e che cosa ti stanno insegnando?” ha chiesto la seconda donna
“tutto” ho risposto io
“voglio dire” ha detto lei “che cosa hai intenzione di fare? Qual è il grande scopo della tua vita? Tutti hanno un grande scopo nella vita”.
Ho sollevato il bicchiere verso il barista. Lui l’ha preso e l’ha riempito di nuovo. Ho pagato con gli spiccioli e mi sono reso conto che mi erano rimasti trenta centesimi dei due dollari con cui avevo cominciato un paio d’ore prima. La donna era ancora in attesa della mia risposta. (“Scuola serale” – Carver)

Mel – cuoco “ho 50 anni, cosa posso aspettarmi dalla vita?”
Vera – cameriera “di compierne 51”
(Alice – serie televisiva)

Short story, Carver “Vuoi stare zitta per favore?”

aprile 23, 2008

Al primo impatto con i racconti di Carver, nella lucidità e nella limpidezza sia in generale della storia che, a livello espressivo, dell’architettura su cui si strutturano le frasi, si ha la sensazione che scrivere sia un’operazione facile. Facile in effetti può essere scrivere, farlo bene è difficile. Carver è consapevolmente, o forse no (non è importante), in grado di padroneggiare un’alchimia segreta che infonde nei suoi racconti, che li fa coerentemente stare in piedi. Il suo è uno stile semplice,  testardamente diretto (ciò non significa scontato o superficiale), dice ciò che c’è da dire scansando retorica o compiacimento, scansando logorrea o pretenziosità, conservando però per le sue storie un ritmo elevato e una tensione narrativa forte, non c’è pericolo di annoiarsi, sia per l’essenzialità, sia perché non riduce la trama a banale resoconto cronachistico, riesce ad essere evocativo e non lo fa magari creando un tessuto lirico o di analogie inaspettate, o di folgoranti metafore, né raccontando storie assurde, surreali (tranne rari casi) ci riesce piuttosto sfruttando al massimo:

 

Il dialogo, mai troppo articolato, frammenti in cui si concentra l’emotività e il senso della vita dei personaggi. Frasi spiazzanti, caustiche, inaspettate, dolorosamente rassegnate, ecc., ma anche semplicemente estrapolate dalla quotidianità: una battuta di spirito, un po’ di buon senso, amore a buon mercato tra due amanti ecc.; ma che hanno comunque il pregio di riscattare una storia talvolta apparentemente banale, non in sé, ma in quanto storia alla portata di tutti, già sentita o addirittura vissuta: quotidianità insomma.

 

Nella scelta del tipo di storia e nel suo sviluppo narrativo: ciò che sceglie di dire e come lo mette in campo. Sotto gli occhi del lettore si sviluppano una serie di sequenze nitide, Carver prende schegge di realtà, banalizzando, scatta un’istantanea e la presenta in modo perfetto, persino calcolato, mai una virgola fuori posto, mai una parola in più del necessario. Noi non sappiamo come la vita dei personaggi si sia articolata nel passato e come si svolgerà nel futuro, abbiamo un’immagine chiusa in sé di quel preciso momento. Il tempo si sviluppa tutto nel momento della narrazione, non c’è mai un prima e il dopo al massimo è lasciato alla buona volontà del lettore. Ogni racconto seziona una determinata parte della realtà, ogni racconto diviene un exemplum, senza intenti moraleggianti, senza giudizi, Carver si eclissa nei suoi racconti, non ha bisogno di esserci in maniera manifesta, di sbraitare fino a divenir sguaiato, è una presenza discreta, non si fa coinvolgere. Per semplificare: Carver è sul tetto di un palazzo e guarda in basso, una bella altezza, un bel salto, inquadra dall’alto una piazza, a piombo, prende dalla folla che cammina sotto ora questo ora quello: uno studente, marito e moglie, un tizio in crisi, un ragazzino che gioca, ecc. Le sue non sono storie corali, l’attenzione si appunta su solitudini (solitudine che di volta in volta ha diversi attributi: ripiegata, sconfitta, mortificata, sfibrata, disperata, indifferente, cinica, capitata), la solitudine di un individuo in un mondo intimo, quotidiano, percorso da avvenimenti standard: magari i rapporti in famiglia, il lavoro, niente di eccezionale. Noi lettori siamo su quel tetto e Carver da lassù ci indica con il dito ora questo ora quello, e per un attimo noi siamo partecipi della vita del personaggio che lo scrittore ha scelto di indicarci, finché quell’individuo non scompare dalla nostra vista. Niente discorsi, niente osservazioni, niente commenti. Non è necessariamente mera, oggettiva, dissezione la sua, certo non parteggia per l’uno o l’altro, ma le scelte: come monta la storia e ciò che in essa troviamo, fanno comunque emergere la sensibilità dello scrittore, solo che per onestà, e per pudore, non ce la sbatte in faccia, non dice ho ragione io, è così e basta, Carver indica e noi con lui osserviamo.