Appunti sparsi di recenti letture: Himes vs Benioff

gennaio 9, 2013

Che contrasto stridente, che scontro di stile e sensibilità, di capacità di rappresentare una città, una storia, delle vite in parallelo, ai limiti.

Ho letto due libri che per tematiche sono affini e che rappresentano una città, New York, con risultati diametralmente opposti.

25_ora_01David Benioff  “La 25^ ora” il suo romanzo d’esordio datato 2001 (sottolineo la data perché è un romanzo recente, per cui certe semplificazioni, certe caratterizzazioni risultano essere persino puerili, riciclate dall’ultimo e più infimo telefilm fatto a budget ridotto). Nel mezzo di descrizioni banali, e personaggi stereotipati a livelli parossistici, una storia che dice veramente poco. Banale, tristemente, desolatamente banale è l’unico aggettivo che mi vien voglia di usare. Mentre in copertina critici (annebbiati? Prezzolati? Stitici culturalmente?) sparano: sfolgorante, bellissimo, epico, intenso e compagnia cantante (????) tutto il meglio del meglio, che uno in mano pensa di avere un romanzo con il fuoco in ogni pagina. Ecco, il protagonista, che sogna d’essere un pompiere (in realtà è un piccolo spacciatore, fregato dal compare) mi sa che quel fuoco l’ha spento. Non c’è storia, non c’è New York.

O io sono un alieno (può anche essere), oppure chi scrive di libri probabilmente non li legge, o legge poco in generale.

Chester Himes in “Rabbia ad Harlem” scrive una storia che ha connotazioni persino fiabesche, seppure in sottofondo sia concreta la sensazione di vita, vita versimile, e di un certo tipo di esistenza: sofferenza e povertà le caratteristiche che la connotano; non solo restituisce a fa conoscere un quartiere come Harlem a chi non ci è mai stato, non solo coinvolge il lettore, lo spiazza, lo diverte, lo sorprende, ma costruisce una storia che potremmo definire: sfolgorante, bellissima, epica, intensa e compagnia cantante. (!!!)

Non c’è partita, evitare come la peste il primo, provare a conoscere il secondo, che dà il meglio di sé proprio con questo romanzo.


Nick Hornby

agosto 18, 2011

Potrei sintetizzare così il mio rapporto letterario (da lettore, io – ad autore lui) con Nick Hornby:

leggere un libro di Hornby è come fare una chiacchierata con un tizio al pub, passi piacevolmente due ore, ma non ti lascia nulla dentro.


Non è importante

Maggio 8, 2008

“E’ sempre un errore andare in cerca del modello di un’opera d’arte” Otoko, pittrice, protagonista del libro di Y. Kawabata, Bellezza e tristezza, (Utsukushisa to Kanashimi to).

lippi

Filippo Lippi “Madonna con Bambino e due angeli” (1465)


Il blu di Tokyo (3), pioggia, Murakami (passando per Verlaine)

Maggio 2, 2008

Gli occhi di Naoko si riempirono di pianto, due lacrime le rigarono le guance e caddero con un rumore distinto sulla copertina di un disco. Fu l’inizio di un pianto irrefrenabile. Piangeva con il corpo piegato in avanti e le mani poggiate sul pavimento, nella posizione di chi sta vomitando. Non avevo mai visto in vita mia un pianto così violento. Stesi dolcemente la mano e le toccai le spalle. Sentii il fitto tremito che la scuoteva. Poi, quasi inconsciamente, la strinsi tra le braccia. Continuò a piangere così, in silenzio, e io sentivo il suo tremito attraverso il mio petto. Per le lacrime ed il respiro caldo la mia camicia si inumidì, e dopo un po’ era completamente bagnata. […] Restai a lungo in quella posizione aspettando che Naoko smettesse di piangere. Solo che non smise. (Haruki Murakami – Tokyo blues, Norwegian wood).


Dì, amico, dove stai andando?

aprile 30, 2008
Poi si è voltata verso il barista e gli ha ordinato altre due birre. Io mi stavo tenendo da conto la mia, ma a quel punto l’ho scolata tutta, pensando che magari mi avrebbero offerto un giro. Non lo fecero.
“Che combini?” mi ha chiesto la prima donna
“in questo momento niente” ho detto “qualche volta, se posso, studio”
“studia” ha detto lei all’altra “è uno studente, dov’è che studi?”
“in giro” ho risposto
“te l’avevo detto, no?” ha detto lei “che aveva l’aria di uno che studia”
“e che cosa ti stanno insegnando?” ha chiesto la seconda donna
“tutto” ho risposto io
“voglio dire” ha detto lei “che cosa hai intenzione di fare? Qual è il grande scopo della tua vita? Tutti hanno un grande scopo nella vita”.
Ho sollevato il bicchiere verso il barista. Lui l’ha preso e l’ha riempito di nuovo. Ho pagato con gli spiccioli e mi sono reso conto che mi erano rimasti trenta centesimi dei due dollari con cui avevo cominciato un paio d’ore prima. La donna era ancora in attesa della mia risposta. (“Scuola serale” – Carver)

Mel – cuoco “ho 50 anni, cosa posso aspettarmi dalla vita?”
Vera – cameriera “di compierne 51”
(Alice – serie televisiva)

Short story, Carver “Vuoi stare zitta per favore?”

aprile 23, 2008

Al primo impatto con i racconti di Carver, nella lucidità e nella limpidezza sia in generale della storia che, a livello espressivo, dell’architettura su cui si strutturano le frasi, si ha la sensazione che scrivere sia un’operazione facile. Facile in effetti può essere scrivere, farlo bene è difficile. Carver è consapevolmente, o forse no (non è importante), in grado di padroneggiare un’alchimia segreta che infonde nei suoi racconti, che li fa coerentemente stare in piedi. Il suo è uno stile semplice,  testardamente diretto (ciò non significa scontato o superficiale), dice ciò che c’è da dire scansando retorica o compiacimento, scansando logorrea o pretenziosità, conservando però per le sue storie un ritmo elevato e una tensione narrativa forte, non c’è pericolo di annoiarsi, sia per l’essenzialità, sia perché non riduce la trama a banale resoconto cronachistico, riesce ad essere evocativo e non lo fa magari creando un tessuto lirico o di analogie inaspettate, o di folgoranti metafore, né raccontando storie assurde, surreali (tranne rari casi) ci riesce piuttosto sfruttando al massimo:

 

Il dialogo, mai troppo articolato, frammenti in cui si concentra l’emotività e il senso della vita dei personaggi. Frasi spiazzanti, caustiche, inaspettate, dolorosamente rassegnate, ecc., ma anche semplicemente estrapolate dalla quotidianità: una battuta di spirito, un po’ di buon senso, amore a buon mercato tra due amanti ecc.; ma che hanno comunque il pregio di riscattare una storia talvolta apparentemente banale, non in sé, ma in quanto storia alla portata di tutti, già sentita o addirittura vissuta: quotidianità insomma.

 

Nella scelta del tipo di storia e nel suo sviluppo narrativo: ciò che sceglie di dire e come lo mette in campo. Sotto gli occhi del lettore si sviluppano una serie di sequenze nitide, Carver prende schegge di realtà, banalizzando, scatta un’istantanea e la presenta in modo perfetto, persino calcolato, mai una virgola fuori posto, mai una parola in più del necessario. Noi non sappiamo come la vita dei personaggi si sia articolata nel passato e come si svolgerà nel futuro, abbiamo un’immagine chiusa in sé di quel preciso momento. Il tempo si sviluppa tutto nel momento della narrazione, non c’è mai un prima e il dopo al massimo è lasciato alla buona volontà del lettore. Ogni racconto seziona una determinata parte della realtà, ogni racconto diviene un exemplum, senza intenti moraleggianti, senza giudizi, Carver si eclissa nei suoi racconti, non ha bisogno di esserci in maniera manifesta, di sbraitare fino a divenir sguaiato, è una presenza discreta, non si fa coinvolgere. Per semplificare: Carver è sul tetto di un palazzo e guarda in basso, una bella altezza, un bel salto, inquadra dall’alto una piazza, a piombo, prende dalla folla che cammina sotto ora questo ora quello: uno studente, marito e moglie, un tizio in crisi, un ragazzino che gioca, ecc. Le sue non sono storie corali, l’attenzione si appunta su solitudini (solitudine che di volta in volta ha diversi attributi: ripiegata, sconfitta, mortificata, sfibrata, disperata, indifferente, cinica, capitata), la solitudine di un individuo in un mondo intimo, quotidiano, percorso da avvenimenti standard: magari i rapporti in famiglia, il lavoro, niente di eccezionale. Noi lettori siamo su quel tetto e Carver da lassù ci indica con il dito ora questo ora quello, e per un attimo noi siamo partecipi della vita del personaggio che lo scrittore ha scelto di indicarci, finché quell’individuo non scompare dalla nostra vista. Niente discorsi, niente osservazioni, niente commenti. Non è necessariamente mera, oggettiva, dissezione la sua, certo non parteggia per l’uno o l’altro, ma le scelte: come monta la storia e ciò che in essa troviamo, fanno comunque emergere la sensibilità dello scrittore, solo che per onestà, e per pudore, non ce la sbatte in faccia, non dice ho ragione io, è così e basta, Carver indica e noi con lui osserviamo.

 


La necessità di chiamare un luogo “casa”: Kitano ed Asakusa

aprile 15, 2008

Il bisogno di trovare un luogo che rappresenti l’identità, il nucleo autentico di una persona, ciò che egli sente d’essere non solo per affinità di umori e oltre la ricerca del nido sicuro, oltre un orizzonte certo di colori e forme, oltre volti che hanno la qualità del già visto e che innescano schemi di identificazione, un meccanismo di difesa per non perdersi nella folla, e attraverso cui costruire un falso principio di equilibrio. Oltre profumi sparsi da ricomporre in un puzzle che stimoli piacevoli ricordi sepolti nei recessi della mente. Oltre la necessità di tracciare un confine tra “il mio territorio e il resto”, dietro cui tumularsi per escludere il mondo. Piuttosto il richiamo impellente, non conscio e ineludibile, verso un luogo che esercita su di noi un’attrattiva con una tale urgenza da far prorompere stimoli di realizzazione, scoperta di sé in un processo di identificazione empatica. Un ponte sospeso tra noi ed il mondo, da attraversare o da pattugliare, o su cui issarsi per pisciare in testa agli altri.

 

Da “Asakusa Kid” di Takeshi Kitano: Era il 1973, alla fine ero tornato ad Asakusa. Tutto mi ispirava nostalgia. L’enorme lanterna di carta recante la scritta nero lucido “La Porta del Tuono” dipinta con inchiostro di china. La porta laccata rossa e viale Nakamise, con le bancarelle, rosse anch’esse. E il cielo estivo sopra il viale. Le banderuole decorate che roteavano al vento. “Benvenuto ad Asakusa. La sua freschezza e il suo fascino di quartiere popolare!”. Le eterne botteghe d souvenir […] tanta nostalgia mi rassicurava.

 

E io avrei cazzeggiato per tutta la vita? Avevo forse l’intenzione di fare il barman per il resto dei miei giorni? Non avevo altro da fare? Qual era il mio sogno? Qual era il mestiere per il quale ero nato? Più mi ponevo queste domande, più perdevo il senso dell’orientamento, più mi sentivo disgraziato, senza appoggio. Era questo il mio spirito quando improvvisamente mi venne quest’idea: andarmene ad Asakusa e diventare attore comico! […] Non contava più nient’altro che Asakusa […] impossibile resistere a quel richiamo.

 

Le strade del sesto distretto dedicate allo spettacolo e all’intrattenimento sembravano all’improvviso appartenermi. Come anche tutti gli odori  che avvolgevano il quartiere di Asakusa. […] Ero tornato. O forse no, era questo quartiere che attendeva la mia venuta. Cazzo, ecco com’era.