“Martin Eden” di Jack London

febbraio 28, 2008

Solo due libri per me sono stati una colossale delusione: da ragazzino “L’isola del tesoro” di Stevenson, poi questo di London. Per me Martin Eden è una bufala. Veniamo al punto: non mi piace essere preso in giro ed è questa la sensazione che ho avuto leggendo il libro. Sembra che il dolore autentico che deve essere appartenuto all’esperienza dell’autore venga, forse per pudore, forse per incapacità di elaborarlo o fissarlo sulla pagina, tenuto nascosto presentando piuttosto un simulacro d’emozione e di esperienza. Per carità, appena iniziato a leggere ho subito il fascino dello stile, non si può dire che London non sia capace di scrivere, questo è certo, baso più il giudizio sui contenuti, su come egli decida di tessere la tela, su quanto poco egli decida di mettersi in gioco. Dopo un po’ uno avverte un certo prurito tra le sinapsi, qualcosa si inceppa, si ha la sensazione che quella che lui presenta non sia la vita, è distante dal sangue delle cose e degli uomini, è talvolta artificiosa,  è lontana dal dolore e dalla sofferenza che cerca di mimare, non c’è alcun travaglio, non c’è amore, non c’è dolore, può esserci la parola amore o sofferenza, ma sono solo lettere, piccoli animaletti neri defunti spiaccicati sulle pagine. Per non dire di quel farlocco gioco formale in cui la bella si scandalizza mentre Martin le legge un racconto truculento, e subito dopo London descrive il passato di Martin con la storia della scazzottata e il sangue, così il lettore è trasformato nella bella sconvolta e lui è Martin Eden. Che bravo, è per questo che si ha la sensazione di essere fregati, è tutto un gioco, non una confessione sincera, e non c’è niente di peggio di uno scrittore che mente perché non sa scrivere (lo escludo per London), o perché ha paura delle conseguenze di ciò che dice. Non mi si muova l’obbiezione: “ma devi contestualizzare, forse si tratta della tua sensibilità, magari leggi London con l’occhio del lettore moderno, per questo ti sembra…”, rispondo subito che la vita non si contestualizza. Kafka non è mio coetaneo e neppure Dostojieski eppure le loro pagine si illuminano di vita, palpitano e sono di una tale immediatezza capace di coinvolge anche il lettore moderno. Io non sto facendo un discorso di forma, ma di qualcosa di sotterraneo che scorre oltre l’architettura delle frasi. Il vecchio Fedor è un gigante, scrive in modo diverso da come scriviamo noi, ma la vita scorre tra le sue righe e la si può percepire, ti seduce o ti sbatte a terra, ma la senti. Martin Eden di London, invece, è solo uno specchio orientato sulla vita, la riflette, ma l’immagine che si compone è un miraggio della vita stessa. Questo è Martin Eden un vuoto involucro, se ne vede la forma ma non lo spessore.