Mimesis, tre interpretazioni: Lisippo, Van Gogh, Mishima

febbraio 29, 2008

Lisippo aveva ben presente la questione mimesis (e ciò che essa sottende, specie nel dibattito estetico e artistico) quando sosteneva che gli antichi ritraevano gli uomini come sono, lui invece come sembrano (essere e sembrare, termini che investono la mimesis, ma anche concetti e tematiche quali: filosofia, natura, psicologia, percezione, ecc.); mettendo in campo il dilemma se l’arte restituisca un’immagine aderente alla realtà (sia manifestazione di essa), oppure se sia semplicemente un simulacro (e come tale fuorviante, incompleto) della realtà.

 Van Gogh in una lettera al fratello Theo di fine ottobre 1885, si interroga su mimesis e colore: “ebbene si perde l’armonia generale dei toni della natura con un’imitazione penosamente esatta; mentre la si mantiene ricreando una gamma cromatica parallela che può non essere precisamente quella del modello, o addirittura ben diversa […] supponiamo che io dipinga un paesaggio autunnale, degli alberi dalle foglie gialle […] che importa se il giallo è lo stesso di quelle foglie o meno? È cosa di ben poca importanza.” Più avanti riferendosi al dipinto di Veronese le nozze di Cana “il colore in sé non vuol dir nulla, non se ne può fare a meno, lo si deve impiegare; quel che è bello, realmente bello – è anche giusto […] Veronese sullo sfondo usa bianco perlaceo ed azzurrino, che non ci sono in primo piano. Li profonde nello sfondo ed era giusto farlo […] tutta quella architettura e il cielo sono convenzionali, dipendono dalle figure, sono calcolati per far spiccare le figure. È quella davvero la vera pittura e il risultato è più bello dell’esatta imitazione delle cose. […] Studiare la natura, combattere la realtà […] Si inizia con un’impari lotta per seguire la natura e tutto va male; si finisce con il creare tranquillamente dalla propria tavolozza e la natura va d’accordo e segue ciò che si fa […] la lotta, anche se può sembrare futile dà intimità con la natura, e una conoscenza più profonda delle cose.” 

Yukio Mishima in “Il Padiglione d’oro” scrive a proposito dell’Ikebana (in stile kansui) – fiori ed erba risultavano trasformati da come sono in come dovrebbero essere: i fili di gattinara e gli iris non erano più anonimi rappresentanti delle rispettive specie, bensì chiara e diretta manifestazione di quel che sembrava essere la loro vera essenza -. Qui, addirittura, Mishima afferma che i fiori ricomposti in una dimensione artistica assumono un senso (solo allora), esprimono la loro vera essenza, cosa che in natura non riescono a fare con la stessa intensità, forza e coerenza. Il concetto espresso da Mishima (in realtà è più sottile ma lo spunto, anche così ridotto, rimane comunque interessante) si chiarisce tenendo conto della relazione tra ikebana e buddhismo zen (di cui l’ikebana ne è una manifestazione ed espressione artistica). Attraverso lo schema composto nelle composizioni floreali si creano le condizioni formali necessarie perché emerga la natura dei fiori, se si vuole il cuore dei fiori (hana no kokoro). L’ikebana infatti è una sorta di distillato della natura, il cui senso, le cui qualità nella realtà sono difficilmente percepibili in quanto tali qualità non possono essere colte nelle caotiche relazioni che rami, fiori, erba intessono in natura (ad esempio: un campo è pieno di fiori, una foresta piena di rami che si intrecciano, ecc.). Invece l’essenza dell’iris di Mishima, si esprime nell’ikebana che (attraverso il vuoto) riducendo la quantità di elementi percepibili, aumenta la possibilità di coglierne il senso con forza ed intensità.


Questa non è roba per stomaci deboli

febbraio 29, 2008

Spesso ci si interroga su quale sia il modo corretto di esprimersi e se abbia diritto d’asilo in un ragionamento, in una conversazione, un termine degradato, volgare, sopra le righe. In genere si riconosce a questo la possibilità di esserci solo se inserito in un contesto, così allora viene legittimato ed assume un senso. Io invece vado oltre la necessità di nobilitare un’espressione volgare, e ritengo che essa abbia senso e dignità al di là del contesto, allo stesso modo di un termine aulico o prezioso, senza la necessità di disinnescarne la forza dirompente, imbrigliandolo in un contesto diverso, facendogli assumere una forma che non ha. C’è inoltre un meccanismo pericoloso che interviene in chi ascolta il termine degradato, che si può esemplificare in una chiusura totale ed a-critica verso chi l’ha pronunciato. Si concentra l’attenzione non sul contenuto di ciò che è stato detto, ma su come lo si è detto. Non si capisce (capacità di astrazione diceva Kant) che: se devi dirmi che sono un cretino, dimmelo in base a ciò che ho detto, non a come l’ho detto. Perché se strutturo una proposizione con termini peregrini, o piani, posso dire ciò che voglio, ma se ci metto dei termini degradati allora subisco veti e censure? Chi stabilisce ipotetiche patenti di validità basandosi non sul contenuto ma sulla forma? Chi è migliore: il raffinato stilnovista, o il putrido (in alcune circostanze) Jacopone da Todi? 

Erano i capei d’oro a l’aura sparsi/ che ‘n mille dolci nodi gli avolgea/ e ‘l vago lume oltra misura ardea/ di quei begli occhi, ch’or ne son si scarsi. Bravo è bravo Petrarca, che gli vuoi dire, fai la tua porca figura a citarlo, ma Francesco non ti è venuto il dubbio che magari Laura sia morta di tedio? 

Qui non c’è pericolo di annoiarsi. I tre moschettieri  A. Ginsberg, J. Kerouac e N. Cassady si mettono insieme per : prendimi il pisello/ con la mano a coppa/ Fa che non pensi al guaglioncello/ fammi un su e giù/ non resisto più/ inondami di petali/ imperlami le ali/ […] allappami le parti/ pappami il pisello/ infilati il mio martello/ insalivami il gioiello.Lascio la difesa d’ufficio all’accorato, appassionato, turbinante C. A. Corsi (scrittore e docente universitario) dato che prenderò a prestito alcuni concetti da lui espressi su Kerouac poeta: perché Kerouac è ancora vivo oggi, e non solo limitato il suo studio alla dissezione accademica? Per la lezione di libertà che regna nelle sue opere “che poi si tratti di vera o presunta libertà è in questa istanza scarsamente rilevante. […] è la libertà di essere se stesso, di irridere le mode, di fare spallucce alle conversazioni sociali e poetiche” e per farlo usa gli strumenti di tecnica e cultura che rendono spontaneo un gesto spontaneo. “La nuova poesia americana” che piacere lo stesso Kerouac interviene “almeno per quanto riguarda il Rinascimento di S. Francisco, è una poesia zen e folle, che ti permette di scrivere qualsiasi cosa ti passi per la testa, una poesia veramente ORALE (Ferlinghetti), invece delle fumisterie dei grigi accademici. È da tempo che prosa e poesia sono finite nelle mani false dei falsari”. 

Dio Emily se mi fai perdere la testa quando scrivi: 

Wild Nights – Wild Nights!
Were I with thee
Wild Nights should be
Our luxury!
Futile -the Winds-
To a Heart in port –
Done with the Compass –
Done with the Chart!
Rowing in Eden –
Ah, the Sea!
Might I but moor –Tonight-
In Thee!

 [Notti selvagge – notti selvagge!/ Se io fossi con te/ notti selvagge sarebbero/ nostra voluttà!/ Futili i venti/ per un cuore in porto/ niente più bussola/ niente più carta/ Remando nell’Eden/ ah, il mare! Se potessi ancorarmi/ stanotte in te!] e che scrupoli di coscienza si fece venire il colonnello Higginson dovendo nel 1891 curare un’edizione dei Poems, desiderava inserirla ma non osava. Daje colonnello, daje che ne vale la pena “temo che i maligni vi leggano più di quanto la vergine reclusa si sia mai sognata di mettervi […] eppure quale perdita sarebbe ad ometterla” e allora daje colonnello e che i malparlieri la condannino dietro le imposte delle loro solide brownstones, mentre di notte la leggono segretamente fino a stamparsi nel cranio quei meravigliosi versi, versandoli poi in un soffio caldo nelle orecchie delle loro mogli nere di castità battista, per accenderle, per metterle in moto, perché su al nord fa freddo d’inverno e allora il peccato diviene meno peccato se in fondo è utile per scaldarsi. Odio quando si dice di una poesia che ha ritmo (che pare ridurre tutto ad una rullata di tamburi), ma Cristo se ha ritmo questa poesia, incalza e spezza Emily, mi sembra di fare l’amore con te, non me ne voglia il colonnello, certo, ha ragione a ricordarmi che le metafore d’amore nella Dickinson si nutrono di presenza ed assenza, ma qui ci siamo, ci siamo colonnello, abbia pazienza, tiri la tendina, non si inquieti se io ed Emily stiamo facendo l’amore. 

La porta si aprì di nuovo ed entrò dentro una, una donna abbastanza ben messa, e si mise gattoni e cominciò a lustrare il parquet, e dimenava il culo “che ne direbbe di una bella ragazza?” “no, sono troppo stanco” “Ma un bel pezzo di sorca, però, concilia il sonno. Viene solo 5 dollari” “sono troppo cotto” “è una bella ragazza, pulita” “dove sarebbe?” “eccomi qua”. Eccolo il vecchio Charles Bukowski, poteva mancare il suo stomaco devastato (d’altronde fanculo il cuore che quello sbrodola melassa in certi libri, è lo stomaco, almeno per me, il vero fulcro di ogni sentimento)? Il suo sesso perennemente in furore? Ma stavolta non ne ha voglia, e così la puttana che non conclude l’affare le prende dal magnaccia. Cazzo ti rimorderà la coscienza Charles, o ti sei bevuto anche quella? “quella strillò e lui la sbatté contro il muro [..] beh, pensai, il mondo è bello perché vario, ma tutto questo poco mi sfagiola, se l’avessi saputo gliel’avrei data un’incarcatina”. Lo dicevo io che in fondo, sotto l’inguine, c’è un cuore che batte, eccome se batte: Cass era la più bella ragazza di tutta la città. Mezz’indiana, aveva un corpo stranamente flessuoso, focoso era come un serpente. Era come uno spirito incastrato in una forma che non riusciva a contenerlo. Lo spirito o alle stelle o giù sotto i calcagni. Non c’era via di mezzo per Cass. C’era chi diceva che era pazza, gli imbecilli lo dicevano. Gli scemi non potevano capirla. Agli uomini in genere Cass pareva una macchina da fottere […] e Cass ballava e civettava, si lasciava baciare, ma, quando si veniva al dunque Cass si eclissava, Cass aveva eluso gli uomini. “Tutti quanti mi accusano d’essere carina, sul serio mi trovi carina?” aspetta Charles, rispondo io a Cass: sei la migliore cosa che mi sia mai capitata. Fa cagare, lo so, meglio la tua: “non è il termine adatto, carina non ti rende giustizia” se non altro suona più onesta. Che fa adesso Cass, che razza di lavoro, si ficca uno spillone nel naso, dentro da una parte, fuori dall’altra… e il sangue… Charles è pazza “è selvatica” fa lui, schizoide dico io, “una bellissima schizoide spirituale” conclude, e così sia Charles. Il prossimo lo paghi tu, intanto tamponale il sangue che il barista è incazzato che basta. 

I tuoi occhi vuoti sono popolati di visioni notturne, e vedo sul colore del tuo volto riflessi alterni, freddi e taciturni, follia e orrore. Non capisco bene cosa c’entri ma grazie di aver partecipato Baudelaire “baciai allora le caviglie fini, lei ebbe un dolce ridere brutale, che si sgranava in un limpido trillo, come un chiaro tinnire di cristallo” certo Rimbaud ma… “quanto mi piace, cara indolente, veder scintillare la pelle del tuo splendido corpo come se fosse una stoffa ondeggiante…” ok Baudelaire però non… “inciso sulle reni si legge: Clara Venus, tutto quel corpo s’agita e porge l’ampia groppa, schifosamente bella per una piaga all’ano” Rimbaud, non vi accapigliate, ma è il tuo maestro, e le corrispondenze… “dal suo pelame biondo e bruno, esce un profumo così dolce, che una sera per averlo accarezzato una volta, una sola, ne fui tutto impregnato” eh, no, Baudelaire questa l’hai scritta per un gatto non per una donna, non rivenderci… “ahimé con il veleno e la lama m’hanno disdegnato” e non buttarla sul tragico Charles… “il coito è principalmente affare dell’uomo, la gravidanza invece solo della donna” scusa Sohpenhauer, tu cosa c’entri, maledetta vecchia litigiosa Europa, ma si può sapere poi come si è finiti a parlar d’amore e donne, puttana-merda? (che son due termini che Dante usa nell’Inferno, mica li ho messi così alla cazzo) 

Ti dirò uguale ad un giorno d’estate/ più temperanza tu hai, più dolcezza/ i mille bocci sferza il vento di maggio/ e l’estate ha scadenze troppo brevi […] ma la tua estate eterna non scolora/ e non si priverà di tua bellezza. E figurarsi se parlando di donne non saltava fuori Shakespeare. Ma guardati William, guarda cosa ti hanno fatto diventare: il discount letterario a cui attingere se uno non ha passione e fantasia, buono per un bigliettino per la farlocca festa di S. Valentino. Buttano la monetina e tu come una scimmia fai la capriola. Guardati Bardo, guarda cosa ti hanno fatto diventare… fai paura. Ne ho le palle piene di tutti voi, della vostra bocca sporcacciona o dei vostri versi tagliati con il cesello, concludo con una bella flatulenza alla Ignatius Reilly (benedetto J. K. Toole) e ricordo che la poesia (storpiando un verso di Kerouac) è morire d’estasi ed uno può scegliere le armi che più gli comodano per morire (perciò anche termini scurrili, maleducati, stronzi) e che se questo vale per la poesia figurarsi per la comunicazione di tutti i giorni. A conclusione di tutto ciò ci piazzo una mia poesia: 

Che avrà Erato da strillare?
Dice che la veste non le dovevo sollevare:
“lo fa anche il vento” rispondo stupito
– comunque tu resti un gran pervertito! –
“dicevan che fossi Musa d’Amore”
– mi hai forse scambiata, per una cagna in calore?
Son musa senz’altro, e te lo dimostro,
inzuppa la penna nel vasetto d’inchiostro –
Provo a pensare: “Non mi viene niente”
– perché sei sensibile quanto un serpente –
“a letto funzioni, sei tutta un bollore,
ma come Musa sei uno squallore”
Le cola del rimmel dal volto sudato,
quelle lacrime nere dei versi han creato:
……sei più bello d’un fiore…..
……ti dono il mio cuore…..
“Tutto qui ciò che sai fare?”
Le chiedo deluso, l’ho fatta arrabbiare,
mi volta le spalle, ha un bel sedere,
mi dispiacerebbe davvero, non poterlo più avere.
Provo a fermarla, ma ha già deciso,
il nostro rapporto per sempre reciso.
“Ehi Erato, se non mi vuoi più ispirare,
hai almeno cento euro da potermi prestare?”.

Come dovrebbe finire un libro?

febbraio 29, 2008

Se molti considerano difficile iniziare, lo è ancor di più concludere un libro trovando un finale interessante, accattivante, coerente ecc. (penso più ad un romanzo, perché mi pare che il racconto sia meno soggetto alla tirannide del finale). Se si pensa al finale lo si considera come corpo integrante della struttura narrativa, cioè non disgiunto dal clima generale del libro, ma forse neppure questo è un dogma ineludibile. Il finale perfetto non si costruisce su regole, contiene in sé un’alchimia segreta che ti fa chiudere l’ultima pagina con stampato un sorriso sulla faccia (anche se se la storia si è conclusa in maniera drammatica… no Anna non farlo, che i treni arrivano già in ritardo da soli, se dobbiamo anche pulire la stazione io non parto più. Martin Eden se tu invece ci avessi pensato un centinaio di pagine prima, quante tribolazioni mi sarei risparmiato) perché sei consapevole che così dovesse andare a finire. Un finale può essere sorprendente, fantastico, coerente, inaspettato, piano, aperto, buttato là (sì, però come una punizione di Pirlo), mai sciatto perché un finale trascurato compromette l’intero libro. Può essere come una festa di compleanno, che termina con l’arrivo della torta: “Tanti auguri a te” e magari proprio come in una festa di compleanno che si rispetti, si conclude con qualcuno che vomita. Oppure come lo schiocco di un sensuale bacio dopo una mentina. Come una sigaretta dopo aver fatto sesso ai bei vecchi tempi, che oggi hanno scoperto che fumare fa male, e tempo qualche anno scopriranno che anche fare sesso fa male, perciò meglio darci dentro finché si può. Un libro potrebbe chiudersi con una lettera mai spedita (non per un sentore di romanticismo, ma perché tutto cresce ed anche la posta prioritaria non scherza – ho detto a mia madre: le patate in percentuale sono il prodotto che è aumentato più di prezzo, più del petrolio; e lei: la prossima volta il purè te lo faccio con due taniche di benzina). Oppure con la morte della/del protagonista (ecco, per me questo sarebbe stato il finale perfetto per i Promessi Sposi). Un libro potrebbe concludersi con il protagonista che incontra Dio, ma la cosa è difficile da gestire, o si scade nella retorica, oppure troppe aspettative potrebbero poi portare il lettore ad essere deluso… non è così Dante? Che pareva ci sapessi tanto fare leggendo l’Inferno, ma poi un po’ stitico è il tuo Paradiso. Meglio non finire un libro? “Scusate, non ho avuto tempo, mi è capitato di morire”, nessun problema Gogol, le anime morte funzionano lo stesso. 

C’è per me un finale perfetto (anche se teoricamente, forse, neppure si potrebbe parlare di finale) ed è quello di “Una questione privata” di Fenoglio. Un finale perfetto in un libro perfetto (avrebbe potuto dire Calvino che lo considerava come la miglior rappresentazione di un’epoca, di un sentimento, di una generazione). Fenoglio riprende il tema centrale del libro, ossia quello della fuga-ricerca (che tanto ricorda le vicende epiche di cavalieri e dame, ma con un sottofondo qui terribilmente drammatico, che se l’atmosfera calata nelle nebbie delle Langhe è rarefatta, la sentiamo ugualmente vicina, nostra, in un tempo che è il nostro) di rincorsa affannosa che permea tutto il racconto, che qui si sostanzia in quel disperato fuggire del protagonista. C’è un senso di sospensione che sostiene il meccanismo, che rende magico ciò che succede, che ti fa dire mentre passi freneticamente con le pupille da una parola all’altra “mitragliate quanto vi pare stronzi, tanto non lo beccherete mai” (è tutto il libro, tra l’altro, a portare in sé un senso di sospensione magica). E poi… e poi… beh basta, il finale resta aperto, interrotto, ma si capisce che ha senso che sia così, che quella è la conclusione migliore, che è coerente, che abbiamo avuto da Fenoglio tutto ciò che doveva darci. Piuttosto resta aperto il conto con la Einaudi, che spaccia i libri più cari nelle edizioni più infami.


Districarsi dal chiacchiericcio: Fante “Full of life”

febbraio 28, 2008

Non credete mai a quello che gli altri scrivono, sottotitolo non mi fido del mio giudizio figurarsi di quello degli altri. Forse ho esagerato, ma tutto nasce dai commenti improntati ad un entusiasmo ingiustificato che ho letto in internet riguardo al libro di Fante “Full of life”. Chiaro, uno come me che ama Fante si esalta e si fionda in libreria, se uno spera di trovarvi Ask the dust non ci va nemmeno vicino, c’è una tale distanza che paiono scritti da due autori diversi. Si potrebbe obbiettare che quello era il capolavoro di Fante, ok, se uno spera di trovare echi di Aspetta primavera Bandini, mirabile intimista premessa di Ask the dust, manco morto (il confronto non è insensato perché Fante scrive questi libri con Bunker Hill, pensandoli come una sorta di saga, cioè il protagonista è sempre il caro vecchio Bandini). Del trascinante umorismo spacciato nei commenti nessuna traccia, o debbo dedurre che il massimo per chi li ha scritti siano i comici scoppiati di Zelig. E l’intensità umorale di Fante? Te la scordi, si vede che questi non hanno non solo letto Fante, ma leggiucchiato poco in generale. Tutto si riduce ad un’annotazione cronachistica, sciapa scivola scendendo sciocca, che ricrea una situazione del genere: mi siedo al bar e un tizio mezzo ubriaco mi tedia con la storia del padre rompipalle, la moglie incinta e la casa da sistemare. Ma proprio niente, una storia impacchettata, asettica, noiosa e alla fine ti verrebbe da dire “amico, d’altronde è così” per chiudere la conversazione e non farsi alitare alcool in faccia.

Qual è la morale della favola? Primo si può amare incondizionatamente un autore, come io amo Fante, ma riconoscere che ogni tanto una caduta di tono capita a tutti. Secondo, mai fidarsi di un commento su internet, chiaro, neanche del mio.


“Martin Eden” di Jack London

febbraio 28, 2008

Solo due libri per me sono stati una colossale delusione: da ragazzino “L’isola del tesoro” di Stevenson, poi questo di London. Per me Martin Eden è una bufala. Veniamo al punto: non mi piace essere preso in giro ed è questa la sensazione che ho avuto leggendo il libro. Sembra che il dolore autentico che deve essere appartenuto all’esperienza dell’autore venga, forse per pudore, forse per incapacità di elaborarlo o fissarlo sulla pagina, tenuto nascosto presentando piuttosto un simulacro d’emozione e di esperienza. Per carità, appena iniziato a leggere ho subito il fascino dello stile, non si può dire che London non sia capace di scrivere, questo è certo, baso più il giudizio sui contenuti, su come egli decida di tessere la tela, su quanto poco egli decida di mettersi in gioco. Dopo un po’ uno avverte un certo prurito tra le sinapsi, qualcosa si inceppa, si ha la sensazione che quella che lui presenta non sia la vita, è distante dal sangue delle cose e degli uomini, è talvolta artificiosa,  è lontana dal dolore e dalla sofferenza che cerca di mimare, non c’è alcun travaglio, non c’è amore, non c’è dolore, può esserci la parola amore o sofferenza, ma sono solo lettere, piccoli animaletti neri defunti spiaccicati sulle pagine. Per non dire di quel farlocco gioco formale in cui la bella si scandalizza mentre Martin le legge un racconto truculento, e subito dopo London descrive il passato di Martin con la storia della scazzottata e il sangue, così il lettore è trasformato nella bella sconvolta e lui è Martin Eden. Che bravo, è per questo che si ha la sensazione di essere fregati, è tutto un gioco, non una confessione sincera, e non c’è niente di peggio di uno scrittore che mente perché non sa scrivere (lo escludo per London), o perché ha paura delle conseguenze di ciò che dice. Non mi si muova l’obbiezione: “ma devi contestualizzare, forse si tratta della tua sensibilità, magari leggi London con l’occhio del lettore moderno, per questo ti sembra…”, rispondo subito che la vita non si contestualizza. Kafka non è mio coetaneo e neppure Dostojieski eppure le loro pagine si illuminano di vita, palpitano e sono di una tale immediatezza capace di coinvolge anche il lettore moderno. Io non sto facendo un discorso di forma, ma di qualcosa di sotterraneo che scorre oltre l’architettura delle frasi. Il vecchio Fedor è un gigante, scrive in modo diverso da come scriviamo noi, ma la vita scorre tra le sue righe e la si può percepire, ti seduce o ti sbatte a terra, ma la senti. Martin Eden di London, invece, è solo uno specchio orientato sulla vita, la riflette, ma l’immagine che si compone è un miraggio della vita stessa. Questo è Martin Eden un vuoto involucro, se ne vede la forma ma non lo spessore.


Danza, estetica del movimento

febbraio 25, 2008

La danza, ancora alla fine dell’Ottocento, faticava ad essere riconosciuta come autonoma forma d’arte (considerata come momento minore per accompagnare la musica, equiparata più alla pantomima). Doveva, per riuscirci, elaborare un proprio lessico sia dal punto di vista tecnico (danza come grammatica del corpo) sia dal punto di vista della poetica. E naturalmente lo fece: un linguaggio codificato che diviene tecnica, la base necessaria per connotare il lavoro del ballerino, per misurarne le capacità, la base su cui poi si innestano anche altri criteri valutativi e d’espressione. La danza quindi diviene un linguaggio codificato e complesso che nel movimento esprime la sua compiuta estetica. Ma con il tempo tale linguaggio si frantuma in diverse possibilità, diversi stili i quali richiedono al corpo del ballerino una diversa forma di movimento. Lo testimonia questo brano estratto dall’intervista che l’etoile Gilda Gelati ha rilasciato a Gloria Chiappani Rodichevski: “Avendo una formazione classica, faccio fatica a penetrare la scelta di coloro che abbracciano altri stili. Da ballerina classica ti dico che il linguaggio della danza moderna è interessante ed è un percorso che desidererei fare, ma sono legata alla programmazione della Scala, quindi se le coreografie che amerei affrontare non sono inserite nel cartellone, rinuncio alla mia sete di balletto moderno. Ad esempio farò Sinfonia di salmi di Kylian, perché è in programma: coreografie di questo tipo o la Giselle di Ek o i lavori di Neumeier sono momenti artisticamente importanti per una ballerina. Comunque affrontare la danza moderna significa accostarsi ad un altro linguaggio che io trovo difficile da comprendere, anche fisicamente. Mi attrae e vorrei affrontarlo in modo approfondito, ma se devo compiere un percorso faticoso e quasi snaturante, mi chiedo se ne valga la pena. […] Sono opere e stili che normalmente non affronti, quindi ci devi arrivare per gradi, cioè attraverso i diversi stadi di maturazione”. 

Nel pieno riconoscimento della danza come forma d’arte interviene anche certo lavoro critico, che con forza fa emergere la necessità di definire le specifiche del fare danza. Illuminante la posizione di Mallarmé che nella danza, e nel movimento del corpo che ne è manifestazione, vede: pura intenzione in atto capace di trasformarsi in simbolo, fluttuanti visioni, emozioni non decifrabili immediatamente ma comunque percepibili. La danza come una forma di poesia non ingessata dall’uso, e dalla gabbia, della parola. Un corpo che danza diviene perciò astrazione, pura espressività, estetica in compimento, sorretta da una tecnica (un linguaggio) che deve necessariamente essere sconvolta e reinventata, è un’istanza, persino un bisogno, che appartiene ad ogni forma d’arte. Viene posto in primo piano il corpo, non può essere altrimenti, la danza è un corpo che si costruisce nello spazio, lo sconvolge, lo reinventa, lo allarga, ecc. e la tecnica è da considerarsi non come un linguaggio chiuso in sé che non ammette aperture, bensì la base attraverso cui esprimere libertà di fare e di contenuti, in quanto la danza ridotta all’essenza è “comunicare”, è un modo di esprimere sé, un concetto, un’emozione ecc.

ivo.jpgSi è posto il problema del corpo (bellezza) e del linguaggio della danza (compreso il suo rinnovamento) Ismael Ivo, ballerino e coreografo curatore delle ultime tre edizioni (compresa la prossima in programma a giugno 2008) della Biennale danza di Venezia. Quella di Ivo è una riflessione sulla bellezza, concetto che oggi si declina esclusivamente come espressione fisica, tralasciando ogni valore interiore, ecco che l’arte della danza, pura bellezza in movimento, può aprire nuovi orizzonti di senso e sensibilità. Dice Ivo: “Essendo un festival di danza contemporanea ho trasformato il tema incentrato sul corpo visto attraverso la coreografia, la tecnica e tutti quegli aspetti ad esso legati, da investigare, rinnovare, collegare, per trovare nuovi vocabolari, affinché tutti i linguaggi della danza – etnica, classica, moderna, postmoderna, minimalista – trovino nuovi input. Il corpo come luogo in cui si riflettono contraddizioni, bisogni, interrogativi del nostro tempo. […] Dentro il mio percorso creativo ho sempre utilizzato impulsi differenti in varie direzioni. Per me oggi l’interesse della danza come coreografo è cercare delle forme per trasformare il vocabolario fisico e tematico, perché penso sia importante, non solo per il ballerino di danza moderna, tentare di creare un nuovo repertorio per il balletto di questo secolo. E’ certamente importante rifare ancora le opere del repertorio classico che rappresentano un patrimonio prezioso, ma non ci si può fermare a questi, perché appartengono ormai al secolo scorso. Oggi è importante dare una nuova fisicità, un nuovo vocabolario, nuovi temi e idee”. Ma proficua e stimolante è anche l’idea di contaminare, collegare diverse forme d’arte, come lui ha fatto con danza e letteratura (Shakespeare). E così con danza e arte figurativa (Bacon) “Questo collegamento con l’arte visuale penso sia importante per il balletto. Bisogna sperimentare di più, avvicinare e collegare i vari linguaggi delle arti, incluso l’aspetto multimediale” non solo il linguaggio della danza da rinnovare “Le diverse influenze rappresentano per me un universo creativo. Non concepisco la divisione. Non esiste il classico, il moderno, il contemporaneo, o il vecchio, ma la qualità”, ma il linguaggio dell’arte in generale da rinnovare con diversi contributi, diversa sensibilità, diversi incontri. Come vede l’idea di estetica della danza Ivo “Per me è uno stato interiore. Non c’è un’estetica definita, perché cambia di anno in anno, di secolo in secolo. Il momento della danza è un momento sacro, è un rapporto con un altro tipo di forza, di energia, che ti fa portatore di un messaggio” . Quale il senso della danza e la responsabilità di un coreografo “Quella di lasciare la danza come un documento e uno specchio del tempo. Come fece Isadora Duncan che espresse la liberazione del corpo. O come Nijinsky con L’apres midì d’un faune che suscitò scandalo all’Opera di Parigi con le persone dopo lo spettacolo che litigavano e discutevano su quell’estetica nuova. Questa è la funzione della danza: portare avanti un senso dell’esistenza per poter progredire umanamente, socialmente, e aprire altre porte del cuore” (brani tratti dall’intervista fatta a Ismael Ivo da Giuseppe di Stefano il sole24ore.com). Sono curioso di vedere cosa quest’anno proporrà alla Biennale Ismael Ivo, come il suo percorso accidentato, difficile, ma coerente e vivo si concluderà.


Kurenai – scarlatto

febbraio 23, 2008

“Asakusa kurenai dan” (tradotto come “La banda di Asakusa”) di Y. Kawabata.

Sgomberiamo subito il campo da fraintendimenti: questo non è un romanzo facile, non è un romanzo di cui appropriarsi in modo diretto, immediato. Ricorda per certi versi la poesia, o almeno ci si addentra tra le righe scritte da Kawabata come si esplorerebbe certa poesia. È un romanzo da meditare, da riprendere e rileggere per scoprire nuove suggestioni, un angolo non visto, una sensazione di cui non ci eravamo accorti, un riflesso sconosciuto, nuove sfumature, penetrando il senso delle storie sempre più in profondità, immersi nella corrente della vita di Asakusa, assaliti, senza fiato, storditi, e l’unico dato certo è che dovremo leggere e poi rileggere ancora, e non basterà. 

La trama è composta da diversi microepisodi, rapide annotazioni come personalissimi colpi di pennello, il vero protagonista è Asakusa quartiere di Tokyo e siamo negli anni venti (gli anni venti furono l’ultima età dell’oro per il quartiere e Kawabata ne fu testimone) testimonianza di un’epoca certo, testimonianza anche di umori e sensazioni di chi laggiù vi viveva o lo frequentava. Asakusa è il quartiere dei divertimenti, delle geishe, degli yakuza, dei teatri, degli spettacoli, degli artisti di strada, ma è anche il quartiere in cui si trova la maggiore concentrazione di templi a Tokyo. È il quartiere dove povertà e ricchezza si incontrano e si sfiorano senza mai realmente fondersi. È il quartiere in cui si mescolano le razze, in cui si trovano gli stranieri. Asakusa è come la vita che ricompone i contrasti, li amalgama, non li fa sembrare più così distanti. Ad Asakusa convivono sensazioni antitetiche, è aperta all’occidente e alle sue mode nel vestire, o nella musica, ma è anche depositaria della tradizione giapponese (ancor oggi è probabilmente il cuore autentico di Tokyo). Metamorfica, in continua trasformazione. Asakusa che è santa e puttana; dolce, compassionevole e crudele, è rifugio o luogo di perdizione e morte, in cui non c’è differenza tra giorno e notte. E così lo stile di Kawabata rispecchia il luogo di cui parla: da un lato si apre alla sperimentazione sulla scia del gruppo d’avanguardia Shinkankakuha (scuola del neo-percezionismo) perciò troviamo un’ambientazione cittadina, la rappresentazione della miseria (senza essere retorico) e dal punto di vista formale il tentativo (perfettamente riuscito) di organizzare le sequenze descrittive attraverso stimoli e sensazioni: odori, suoni, colori, voci; ma contemporaneamente Kawabata è attento a suggestioni stilistiche più antiche.

Appena si inizia a leggere si incontra uno stile fresco e diretto, la confidenza data da chi scrive al lettore (si sente la passione di chi è realmente testimone e partecipe del vissuto di ciò di cui parla) ci fa entrare direttamente in un mondo da cui normalmente verremmo esclusi, e non per imbonirci come si fa con un turista, ma per renderci partecipi di alcuni segreti di Asakusa. Certo, solo alcuni, se sentiamo per un attimo di far parte del quartiere, capiamo anche che il nucleo autentico resta in parte sepolto, ma non possiamo pretendere troppo, siamo stati appena iniziati.Nel libro vengono narrati degli aneddoti concatenati, a volte si interrompono per riprendere in seguito con frenesia. Come quando si studia storia su di un manuale non è possibile procedere in linea retta, è necessario fare dei salti in avanti, oppure indietro, per avere un quadro completo degli avvenimenti. Si potrebbe credere che le microstorie possano tendere a una dispersiva frammentazione, una parcellizzazione che potrebbe confondere il lettore. La cosa non è così automatica. Il modo di procedere nella narrazione è funzionale a ciò che Kawabata vuole fare nel libro, ossia mostrare il turbine di vita di Asakusa, e per riuscirci non solo disgrega la storia (è come se fossimo al centro di un mercato in fermento, difficile focalizzare l’attenzione solo su di una bancarella) ma costruisce le descrizioni con rapide annotazioni di sensazioni, è come se stessimo realmente camminando tra la folla in un vicolo, o vicino ai templi, circondati da una “pioggia di passi”, siamo assaliti da suoni, oggetti, colori, brani smozzicati di conversazione, personaggi che sfilano, ci stupiscono, ci confondono perché non abbiamo il tempo di meditarli, farli sedimentare, in quanto una nuova sensazione si palesa con urgenza: attorno a noi la vita palpita. Una scena appare e poi svanisce sotto l’impulso di un nuovo stimolo visivo o uditivo, e si va oltre. C’è su tutto un elemento di congiunzione ed è il colore scarlatto (Kurenai) appare in un kimono, nelle stoffe, in un neon, nelle barche, è il sole, il sangue ecc. In fondo Asakusa kurenai dan è un inno alla vita e nelle vita è compresa anche la morte, come nella storia di Yumiko, uno dei personaggi più importanti, vicenda di vendetta e morte. Nel flusso del quartiere siamo nel gorgo della vita, immersi per scoprire cosa significhi realmente essere vivi, sentendo impetuosamente il desiderio prorompere e fondersi con il desiderio di tutti gli uomini. Ma siamo anche “come folli in un abisso di solitudine”, nella calca scopriamo anche un senso di vuoto, proprio nel quartiere in cui solitudine e dolore dovrebbero essere banditi, o almeno accantonati. Ma abbiamo detto che Asakusa si costruisce sul paradosso, sui forti contrasti, persino sull’incoerenza percepita, gridata, esibita.

Alla fine del libro ricaveremo due sensazioni: primo, aver ascoltato delle storie e essercene appropriati; secondo, aver realmente visto Asakusa sotto diverse prospettive, attraverso scene dinamiche e cristallizzati ricordi, nelle speranze e nella disillusione dei suoi abitanti e dei suoi frequentatori, e forse per un attimo noi stessi ci saremo sentiti uno di quei frequentatori. Storditi ma felici di aver fatto parte della vita del quartiere può strano e appassionato di Tokyo. Chiudere il libro allora equivarrà a richiuderci alle spalle la porta di casa, tornando finalmente ad una tranquilla intimità, ripeto: stanchi ma soddisfatti.