J. D. Salinger un’onesta testa di medusa

marzo 31, 2008

Questo è il commento al libro “The Catcher in the Rye” (il giovane Holden) che fa il personaggio interpretato da Will Smith nel film Sei gradi di separazione: ho finito il libro, è una storia toccante. È comico, perché lui vuole fare tante cose ma non riesce a fare niente. Odia la falsità e sa solo mentire agli altri [si riferisce a “io sono il più fenomenale bugiardo che abbiate mai incontrato in vita vostra”]. Vuole essere ben voluto da tutti, ma è solo pieno d’odio e completamente egocentrico. In altre parole è il ritratto piuttosto fedele di un adolescente maschio.

Salinger è un autore, rispetto ad altri, poco prolifico, ma d’altronde Bukowski scrisse “tre buoni romanzi sono tutto quello che si può chiedere alla vita” che si può ragionevolmente avere dalla vita, aggiungo io. Eppure ha restituito una tale ampia gamma di istanze nella sua ricerca che riesce a sorprendere: l’unicum del giovane Holden (“freddo come i capezzoli di una strega”, Edgar Marsalla e la sua scoreggia, che in fondo è una scoreggia in faccia all’ipocrisia della compiaciuta società perbene), il racconto perfetto in “Alzate l’architrave”. La profondità e la complessità che richiedono al lettore un approccio attento ed ogni volta nuovo, sorprendente nel cogliere sfumature e risvolti, che troviamo nei “Nove racconti” ed in “Franny e Zooey”. Che dire, al massimo: grazie.

Sintetizzando Salinger con le parole di Salinger (non riferite a sé, ma passaggio contenuto in Seymour): “orribile ma giusto, un’onesta testa di Medusa” ogni serpente in quella testa ha qualcosa da dire, qualcosa di diverso rispetto a ciò che ha già detto.


Giudizio sospeso: David Lynch come Paul Auster

marzo 30, 2008

Questa notte (orientativamente verso le 23.30) Rete4 trasmetterà quello che da molti è considerato il capolavoro di David Lynch “Mulholland Drive”.

Lynch per certi versi mi fa pensare allo scrittore Paul Auster, un parallellismo più che di natura formale, cioè che attine alla loro poetica, alla loro ricerca estetica, che riguarda il mio atteggiamento verso le loro opere. Esistono dei punti di contatto tra i due: Lynch propone delle storie spesso con accenti surreali, soprattutto mai scontati, inaspettati, calati in un clima onirico, strutturati su di una narrazione labirintica, complessa, non immediatamente percepibile-evidente; questi stessi elementi si ritrovano in Auster, penso ad esempio alla Trilogia di New York, Travel in the scriptorium, Leviatano. La differenza è che se entrambi hanno un forte potere sul fruitore delle loro opere, che deve necessariamente a loro affidarsi per “capire”, alla mano di Lynch nella regia, a Auster e alla sua scrittura, Lynch non fa mai da guida, lascia il percorso libero, Auster questa responsabilità se la assume, seppure il lettore abbia comunque ampia libertà e rimangano sempre dei fili sospesi nella storia, su cui noi dobbiamo intervenire per colmare alcune lacune (funzionali chiaramente alla storia, non superficialità dello scrittore). In entrambi i casi il ruolo dello spettatore da inizialmente passivo, perché disorientato, deve poi diventare attivo per addentrarsi nelle storie presentate dai due autori, lo spettatore deve mettere in campo la prorpia sensibilità, curiosità, fantasia, cultura ecc. per cercare di dare un senso a ciò che legge o vede (resta aperta la questione se poi a tutti i costi sia necessario cercare un senso razionale e coerente alle opere dei due).

Eppure affrontando Lynch ed Auster, mi pongo la domanda di quanto ci sia di geniale nelle loro opere e di quanto non si tratti di un delibato, esibito, gioco intellettualistico. Sintetizzando: geni o cazzari? O meglio, geni o abili artigiani?

L’idea è che Auster non stia raccontando una storia, ma intelligentemente costruendo un libro; non una trama che presenti un contenuto fatto di emozioni, necessità, personaggi, fatti ecc. ma il cui scopo è presentare Auster, la sua cultura, l’abilità dell’autore che ammicca tra le righe, che appare e si eclissa, in cui le storie sono un continuo intrecciarsi di rimandi, citazioni, non solo di altre opere ma anche creando percorsi interni al libro stesso, ossia una struttura labirintica che gira su se stessa e si apre all’esterno, e che si scopre senza mai svelarsi del tutto. Una storia strutturata su Auster in cui i fatti narrati sono solo un congegno per rendere lo svelamento/scoperta più divertente. La trama non è il centro e lo scopo della narrazione, è solo una strumento, una maschera. Un gioco raffinato, ma pur sempre un gioco e la sensazione è che alla fine io non abbia ricevuto molto dall’autore, che forse più che leggere una storia io abbia partecipato ad una lezione di scrittura.

Per Lynch invece mi pongo il problema di quanto di suo egli riesca ancora a mettere nei suoi film (in senso di ricerca estetica) e di quanto invece non sia ora prigioniero di quell’immagine (etichetta se si vuole) che la critica ha su di lui costruito, di quanto insomma egli non reiteri, esasperandoli, gli stilemi che l’hanno reso famoso, o quantomeno riconoscibile, muovendosi e districandosi in quel confine tra genialità, irrisione di sé e degli altri che gli hanno dato un’identità riconoscibile (ma che forse non gli può appartenere). Quanto egli è prigioniero di quest’identità cristallizzata, e quanto invece libero? Parrebbe che Lynch se ne svicoli, che ogni volta sia in grado di reinventarsi, di stupire.

Non avendo sufficienti elementi il mio giudizio resta sospeso. credo siano due autori che non hanno bisogno di essere compresi o analizzati, o li si ama visceralmente o meglio cambiare aria.


I salmoni non seguono la corrente

marzo 28, 2008

Riprendo un personaggio del Candide di Voltaire, il nobile veneziano Pococurante (in cui lo stesso Voltaire, per sua ammissione, si riconosceva) a proposito di Omero dice: una volta mi fecero credere che leggere l’Iliade mi piacesse. Ed in effetti l’Iliade è noiosa, tranne in alcuni passaggi, l’Odissea è certamente più godibile. Negare per partito preso la validità di un’opera è idiota, farne il panegirico per partito preso è ugualmente idiota: “quel libro è meraviglioso” solo perché grava su di esso un’aura di sacralità data dal giudizio storico. Onestà intellettuale impone di riconoscere l’importanza di un’opera, poi posso decidere autonomamente se quell’opera mi piace oppure no. Mai vergognarsi di dire che uno legittimamente può trovare Dante noioso, Eliot incomprensibile, Petrarca vuoto, Leopardi pedante, Proust imbellettato, Balzac lezioso ecc. Pococurante conclude (ed io con lui) che le persone vacue ammirano tutto ciò che leggono in un autore stimato e celebrato, io, invece, non leggo che per me.


Chi ti credi d’essere?

marzo 27, 2008

“Sono il Paganini della semantica” (T. Capote)

“Sono un oratore, ma non come dicono loro” (Socrate)


Mimesis secondo Hokusai

marzo 26, 2008

A settantaquattro anni Hokusai (allora Gokyorojin), il Vecchio pazzo per la pittura, scrisse “Dall’età di sei anni ho la mania di copiare la forma delle cose, e dai cinquant’anni pubblico spesso disegni, tra quel che ho raffigurato in questi settant’anni non c’è nulla degno di considerazione. A settantatre anni ho un po’ intuito l’essenza della struttura di animali e uccelli, insetti e pesci, della vita di erbe e piante e perciò a ottantasei progredirò oltre; a novanta ne avrò approfondito ancor di più il senso recondito e a cento anni avrò veramente raggiunto la dimensione del divino e del meraviglioso. Quando ne avrò centodieci, anche solo un punto o una linea saranno dotati di vita propria. Se posso esprimere un desiderio, prego quelli tra lor signori che godranno di una lunga vita di controllare se quanto sostengo si rivelerà infondato [altra traduzione riporta: vorrei chiedere a coloro che mi spravviveranno di prendere atto che non ho parlato senza ragione]”.


hokusai-vecchia-tigre


Personalità sintetizzate

marzo 25, 2008

Questo è Kafka: “Caro papà, recentemente ti è capitato di chiedermi perché affermo che avrei paura di te. Come al solito non ho saputo risponderti, in parte appunto per la paura che mi incuti, in parte perché motivare questa paura richiederebbe troppi particolari” [ da “Lettera al padre”]

Questo è Bukowski: dall’esperienza di Enrico Franceschini, raccontata nella prefazione a “Shakespeare non l’ha mai fatto” ed. Feltrinelli.

“Are you Charles Bukowski?” chiede Franceschini
“Why?” risponde lo scrittore

Corrispondenze

marzo 25, 2008
“Io venni in luogo d’ogni luce muto”
(E. Pound)

“Io non Enea, io non Paulo sono: me degno a ciò né io né altri ‘l crede”
 (Dante)