Come dovrebbe finire un libro?

febbraio 29, 2008

Se molti considerano difficile iniziare, lo è ancor di più concludere un libro trovando un finale interessante, accattivante, coerente ecc. (penso più ad un romanzo, perché mi pare che il racconto sia meno soggetto alla tirannide del finale). Se si pensa al finale lo si considera come corpo integrante della struttura narrativa, cioè non disgiunto dal clima generale del libro, ma forse neppure questo è un dogma ineludibile. Il finale perfetto non si costruisce su regole, contiene in sé un’alchimia segreta che ti fa chiudere l’ultima pagina con stampato un sorriso sulla faccia (anche se se la storia si è conclusa in maniera drammatica… no Anna non farlo, che i treni arrivano già in ritardo da soli, se dobbiamo anche pulire la stazione io non parto più. Martin Eden se tu invece ci avessi pensato un centinaio di pagine prima, quante tribolazioni mi sarei risparmiato) perché sei consapevole che così dovesse andare a finire. Un finale può essere sorprendente, fantastico, coerente, inaspettato, piano, aperto, buttato là (sì, però come una punizione di Pirlo), mai sciatto perché un finale trascurato compromette l’intero libro. Può essere come una festa di compleanno, che termina con l’arrivo della torta: “Tanti auguri a te” e magari proprio come in una festa di compleanno che si rispetti, si conclude con qualcuno che vomita. Oppure come lo schiocco di un sensuale bacio dopo una mentina. Come una sigaretta dopo aver fatto sesso ai bei vecchi tempi, che oggi hanno scoperto che fumare fa male, e tempo qualche anno scopriranno che anche fare sesso fa male, perciò meglio darci dentro finché si può. Un libro potrebbe chiudersi con una lettera mai spedita (non per un sentore di romanticismo, ma perché tutto cresce ed anche la posta prioritaria non scherza – ho detto a mia madre: le patate in percentuale sono il prodotto che è aumentato più di prezzo, più del petrolio; e lei: la prossima volta il purè te lo faccio con due taniche di benzina). Oppure con la morte della/del protagonista (ecco, per me questo sarebbe stato il finale perfetto per i Promessi Sposi). Un libro potrebbe concludersi con il protagonista che incontra Dio, ma la cosa è difficile da gestire, o si scade nella retorica, oppure troppe aspettative potrebbero poi portare il lettore ad essere deluso… non è così Dante? Che pareva ci sapessi tanto fare leggendo l’Inferno, ma poi un po’ stitico è il tuo Paradiso. Meglio non finire un libro? “Scusate, non ho avuto tempo, mi è capitato di morire”, nessun problema Gogol, le anime morte funzionano lo stesso. 

C’è per me un finale perfetto (anche se teoricamente, forse, neppure si potrebbe parlare di finale) ed è quello di “Una questione privata” di Fenoglio. Un finale perfetto in un libro perfetto (avrebbe potuto dire Calvino che lo considerava come la miglior rappresentazione di un’epoca, di un sentimento, di una generazione). Fenoglio riprende il tema centrale del libro, ossia quello della fuga-ricerca (che tanto ricorda le vicende epiche di cavalieri e dame, ma con un sottofondo qui terribilmente drammatico, che se l’atmosfera calata nelle nebbie delle Langhe è rarefatta, la sentiamo ugualmente vicina, nostra, in un tempo che è il nostro) di rincorsa affannosa che permea tutto il racconto, che qui si sostanzia in quel disperato fuggire del protagonista. C’è un senso di sospensione che sostiene il meccanismo, che rende magico ciò che succede, che ti fa dire mentre passi freneticamente con le pupille da una parola all’altra “mitragliate quanto vi pare stronzi, tanto non lo beccherete mai” (è tutto il libro, tra l’altro, a portare in sé un senso di sospensione magica). E poi… e poi… beh basta, il finale resta aperto, interrotto, ma si capisce che ha senso che sia così, che quella è la conclusione migliore, che è coerente, che abbiamo avuto da Fenoglio tutto ciò che doveva darci. Piuttosto resta aperto il conto con la Einaudi, che spaccia i libri più cari nelle edizioni più infami.