Il blu di Tokyo (3), pioggia, Murakami (passando per Verlaine)

Maggio 2, 2008

Gli occhi di Naoko si riempirono di pianto, due lacrime le rigarono le guance e caddero con un rumore distinto sulla copertina di un disco. Fu l’inizio di un pianto irrefrenabile. Piangeva con il corpo piegato in avanti e le mani poggiate sul pavimento, nella posizione di chi sta vomitando. Non avevo mai visto in vita mia un pianto così violento. Stesi dolcemente la mano e le toccai le spalle. Sentii il fitto tremito che la scuoteva. Poi, quasi inconsciamente, la strinsi tra le braccia. Continuò a piangere così, in silenzio, e io sentivo il suo tremito attraverso il mio petto. Per le lacrime ed il respiro caldo la mia camicia si inumidì, e dopo un po’ era completamente bagnata. […] Restai a lungo in quella posizione aspettando che Naoko smettesse di piangere. Solo che non smise. (Haruki Murakami – Tokyo blues, Norwegian wood).


Short story, Carver “Vuoi stare zitta per favore?”

aprile 23, 2008

Al primo impatto con i racconti di Carver, nella lucidità e nella limpidezza sia in generale della storia che, a livello espressivo, dell’architettura su cui si strutturano le frasi, si ha la sensazione che scrivere sia un’operazione facile. Facile in effetti può essere scrivere, farlo bene è difficile. Carver è consapevolmente, o forse no (non è importante), in grado di padroneggiare un’alchimia segreta che infonde nei suoi racconti, che li fa coerentemente stare in piedi. Il suo è uno stile semplice,  testardamente diretto (ciò non significa scontato o superficiale), dice ciò che c’è da dire scansando retorica o compiacimento, scansando logorrea o pretenziosità, conservando però per le sue storie un ritmo elevato e una tensione narrativa forte, non c’è pericolo di annoiarsi, sia per l’essenzialità, sia perché non riduce la trama a banale resoconto cronachistico, riesce ad essere evocativo e non lo fa magari creando un tessuto lirico o di analogie inaspettate, o di folgoranti metafore, né raccontando storie assurde, surreali (tranne rari casi) ci riesce piuttosto sfruttando al massimo:

 

Il dialogo, mai troppo articolato, frammenti in cui si concentra l’emotività e il senso della vita dei personaggi. Frasi spiazzanti, caustiche, inaspettate, dolorosamente rassegnate, ecc., ma anche semplicemente estrapolate dalla quotidianità: una battuta di spirito, un po’ di buon senso, amore a buon mercato tra due amanti ecc.; ma che hanno comunque il pregio di riscattare una storia talvolta apparentemente banale, non in sé, ma in quanto storia alla portata di tutti, già sentita o addirittura vissuta: quotidianità insomma.

 

Nella scelta del tipo di storia e nel suo sviluppo narrativo: ciò che sceglie di dire e come lo mette in campo. Sotto gli occhi del lettore si sviluppano una serie di sequenze nitide, Carver prende schegge di realtà, banalizzando, scatta un’istantanea e la presenta in modo perfetto, persino calcolato, mai una virgola fuori posto, mai una parola in più del necessario. Noi non sappiamo come la vita dei personaggi si sia articolata nel passato e come si svolgerà nel futuro, abbiamo un’immagine chiusa in sé di quel preciso momento. Il tempo si sviluppa tutto nel momento della narrazione, non c’è mai un prima e il dopo al massimo è lasciato alla buona volontà del lettore. Ogni racconto seziona una determinata parte della realtà, ogni racconto diviene un exemplum, senza intenti moraleggianti, senza giudizi, Carver si eclissa nei suoi racconti, non ha bisogno di esserci in maniera manifesta, di sbraitare fino a divenir sguaiato, è una presenza discreta, non si fa coinvolgere. Per semplificare: Carver è sul tetto di un palazzo e guarda in basso, una bella altezza, un bel salto, inquadra dall’alto una piazza, a piombo, prende dalla folla che cammina sotto ora questo ora quello: uno studente, marito e moglie, un tizio in crisi, un ragazzino che gioca, ecc. Le sue non sono storie corali, l’attenzione si appunta su solitudini (solitudine che di volta in volta ha diversi attributi: ripiegata, sconfitta, mortificata, sfibrata, disperata, indifferente, cinica, capitata), la solitudine di un individuo in un mondo intimo, quotidiano, percorso da avvenimenti standard: magari i rapporti in famiglia, il lavoro, niente di eccezionale. Noi lettori siamo su quel tetto e Carver da lassù ci indica con il dito ora questo ora quello, e per un attimo noi siamo partecipi della vita del personaggio che lo scrittore ha scelto di indicarci, finché quell’individuo non scompare dalla nostra vista. Niente discorsi, niente osservazioni, niente commenti. Non è necessariamente mera, oggettiva, dissezione la sua, certo non parteggia per l’uno o l’altro, ma le scelte: come monta la storia e ciò che in essa troviamo, fanno comunque emergere la sensibilità dello scrittore, solo che per onestà, e per pudore, non ce la sbatte in faccia, non dice ho ragione io, è così e basta, Carver indica e noi con lui osserviamo.

 


La necessità di chiamare un luogo “casa”: Kitano ed Asakusa

aprile 15, 2008

Il bisogno di trovare un luogo che rappresenti l’identità, il nucleo autentico di una persona, ciò che egli sente d’essere non solo per affinità di umori e oltre la ricerca del nido sicuro, oltre un orizzonte certo di colori e forme, oltre volti che hanno la qualità del già visto e che innescano schemi di identificazione, un meccanismo di difesa per non perdersi nella folla, e attraverso cui costruire un falso principio di equilibrio. Oltre profumi sparsi da ricomporre in un puzzle che stimoli piacevoli ricordi sepolti nei recessi della mente. Oltre la necessità di tracciare un confine tra “il mio territorio e il resto”, dietro cui tumularsi per escludere il mondo. Piuttosto il richiamo impellente, non conscio e ineludibile, verso un luogo che esercita su di noi un’attrattiva con una tale urgenza da far prorompere stimoli di realizzazione, scoperta di sé in un processo di identificazione empatica. Un ponte sospeso tra noi ed il mondo, da attraversare o da pattugliare, o su cui issarsi per pisciare in testa agli altri.

 

Da “Asakusa Kid” di Takeshi Kitano: Era il 1973, alla fine ero tornato ad Asakusa. Tutto mi ispirava nostalgia. L’enorme lanterna di carta recante la scritta nero lucido “La Porta del Tuono” dipinta con inchiostro di china. La porta laccata rossa e viale Nakamise, con le bancarelle, rosse anch’esse. E il cielo estivo sopra il viale. Le banderuole decorate che roteavano al vento. “Benvenuto ad Asakusa. La sua freschezza e il suo fascino di quartiere popolare!”. Le eterne botteghe d souvenir […] tanta nostalgia mi rassicurava.

 

E io avrei cazzeggiato per tutta la vita? Avevo forse l’intenzione di fare il barman per il resto dei miei giorni? Non avevo altro da fare? Qual era il mio sogno? Qual era il mestiere per il quale ero nato? Più mi ponevo queste domande, più perdevo il senso dell’orientamento, più mi sentivo disgraziato, senza appoggio. Era questo il mio spirito quando improvvisamente mi venne quest’idea: andarmene ad Asakusa e diventare attore comico! […] Non contava più nient’altro che Asakusa […] impossibile resistere a quel richiamo.

 

Le strade del sesto distretto dedicate allo spettacolo e all’intrattenimento sembravano all’improvviso appartenermi. Come anche tutti gli odori  che avvolgevano il quartiere di Asakusa. […] Ero tornato. O forse no, era questo quartiere che attendeva la mia venuta. Cazzo, ecco com’era.

 


Faulkner “Mentre morivo” enigma non risolto

aprile 8, 2008

Il libro è diviso in due blocchi apparentemente contrapposti dal punto di vista dello sviluppo narrativo, in realtà questi due blocchi sono profondamente, non solo legati (per ovvie ragioni di consequenzialità narrativa di una storia che è un unicum) ma anche strutturalmente simili: entrambi dinamici nella forma.

 

Il primo blocco sviluppa la storia su due nuclei tematici (che ritorneranno anche in seguito): morte e tempo. Le sequenze si sviluppano attorno alla casa della famiglia protagonista, in particolare ci si trova costantemente (anche quando non viene direttamente rappresentata) nella camera da letto della madre che sta morendo e guarda dal letto, attraverso la finestra, uno dei figli, Cash il falegname, che le costruisce la bara (anche Cash c’è sempre in sottofondo: è un rumore, una parola, un gesto). Cash scandisce il tempo della narrazione, Cash è un personaggio che in questa prima fase si carica di un significato simbolico sotterraneo, trattenuto, ma vivo ed immediatamente percepibile, è quasi una presenza che informa il senso della narrazione. Cash è una figura priva di concretezza, è solo lavoro, esplicazione tecnica della follia per ora trattenuta, e che più avanti esploderà. Cash è il tempo, è lui che ordina il susseguirsi di giorno e notte, proprio lui per cui giorno e notte nell’incessante lavoro alla bara sono una sola cosa, è lui il tempo della vita e della morte della madre (una madre ostinatamente viva anche se già morta, deve solo rendersene conto, come dice il dottor Peabody: “sono dieci giorni che è morta. Sarà perché è stata parte di Anse per tanto tempo che non può neanche fare quel cambiamento, se cambiamento è. Mi ricordo, quando ero giovane credevo che la morte fosse un fenomeno del corpo; ora so che è soltanto una funzione della mente – della mente, dico, di chi subisce il lutto”); è il tempo per l’intera famiglia e per il paese in attesa di quella morte. Solo nella seconda parte Cash assumerà una forma precisa, un’evidenza umana con identità ed attributi psicologici e fisici ben precisi. Questa prima parte apparentemente può risultare un blocco statico in quanto l’azione e il suo sviluppo spazio-temporale risulta ridotta al minimo, ma non è realmente così. La storia è viva e frammentata, in quanto non raccontata da un unico punto di vista, ma ogni capitolo dà voce ad un diverso personaggio (familiari, vicini, il dottore, amici) che rappresenta in sé (non ad altri, o a un ipotetico lettore) ciò che avviene [e che rappresenta anche se stesso]. Una molteplicità di punti di vista fondati sulla testimonianza diretta, pregiudizi, sentito dire, ipotesi, superstizione, pettegolezzi, sogni, ecc. che forniscono un’immagine caleidoscopica dei fatti, non un’unica verità, ma diversi tasselli attraverso cui cercare di ricostruire una possibile strada verso la verità. Tante diverse strade che si intersecano o che corrono parallele, tante strade che il lettore deve avere voglia di percorrere. “Le Strade” dice Anse il padre “sono fatte per andare, per il movimento, per questo Dio le ha distese sulla terra”. Così il lettore intraprende un viaggio, come quello che la famiglia farà nella seconda parte, ma noi ne riceviamo già un’anticipazione, ci siamo già messi in cammino, loro ci raggiungeranno dopo per fare un pezzo di strada con noi, o meglio, accanto a noi, ma distanti da noi. Risulta pertinente ciò che afferma Alfredo Giuliani in quarta di copertina (ed. Adelphi) il fascino del libro si avverte se “il lettore accetta la sfida di mettere in gioco se stesso, la sua disponibilità percettiva” per cogliere le sfumature dei diversi stimoli presenti tra le righe, e così le simbologie, le citazioni “ciò di non concluso, indeterminato, non detto, tragico, enigmatico” che però “ non si risolve”. Sintetizzando “Mentre morivo” potremmo definirlo: enigma non risolto; si percepisce d’aver solo sfiorato quell’enigma e così il senso profondo della storia, e si capisce che non è possibile comprenderlo e risolverlo interamente perché l’esperienza descritta non ci appartiene, non è cosa nostra.

C’è ancora da sottolineare uno stacco netto che può avvertire chi cerchi un filo coerente nelle testimonianze dei personaggi, soprattutto su come Faulkner abbia costruito quei personaggi, nel senso che i loro pensieri, le descrizioni che restituiscono del paesaggio, talvolta hanno una profondità o una liricità che pare non poter appartenere, ad esempio, ad una pettegola bigotta di paese, o ad un contadino semi-analfabeta. Naturalmente non si tratta di incapacità dell’autore che non sa restituire una razionale fisionomia al personaggio, è più un meccanismo utile a permeare di senso magico la storia, entrando in un clima quasi da favola, così è come se di continuo qualcosa trascendesse i personaggi aprendo porte per loro impensabili e facendo vedere realtà normalmente fuori dalla loro portata e che essi poi comunicano a noi. Lo stesso principio per cui un profeta diviene la voce di Dio.

 

Il secondo blocco, una sorta di allucinata danza macabra, ha inizio quando la morte della madre è conclamata. La famiglia si mette in viaggio, Anse aveva promesso alla moglie che l’avrebbe seppellita nella cittadina in cui lei era nata ed in cui riposano le spoglie dei familiari di lei. È una promessa (vista la distanza del luogo in cui risiedono) assurda, accettata con odio e il cui assolvimento è stato chiesto con altrettanto odio, che svela tensioni trattenute e non metabolizzate, incomunicabilità e rancori in seno alla famiglia. Da promessa si trasforma in una maledizione che porta la famiglia sull’orlo della distruzione, e che di fatto per alcuni membri segnerà un punto di non ritorno. Non soltanto la promessa in sé è assurda, lo sarà ance il viaggio, un cammino nell’Ade (con tanto di fiume carico di minacciose profferte di morte da attraversare) ognuno con il suo carico di follia, di demoni, di paure, di disgrazie per cui la morte della madre non è più il centro del dolore che i familiari sviluppano in loro, come si potrebbe pensare, ma un accidente persino secondario, perché quella è ormai invincibile ed al sicuro, mentre i vivi hanno il disastro di esistenze sbagliate da affrontare: Dewey Dell una gravidanza non voluta che cerca di sbolognarsi, Vardaman la follia “Mia madre è un pesce” con le sue visioni surreali e angoscianti se si pensa che vengono da un bambino, Cash che perde l’uso della gamba, Jewel che finirà in galera, Darl portatore di una spietata compiaciuta freddezza di sentimenti nei confronti di tutti gli altri, il più normale il più spietato. E Anse che attribuisce tutti i guai che devono affrontare (uscendone sconfitti, tra l’altro) alla scalogna, Anse continua ad essere una figura passiva fino all’idiozia, fino alla follia. Ma Anse fa finta di non vedere, fa finta di non capire perché è più comodo e lui abitualmente sceglie la strada più comoda, tranne che nell’occasione di quel viaggio, nonostante tutti gli consiglino di seppellirla là, in paese, tanto che differenza fa per la morta tornare nel luogo in cui è nata? No, lui l’ha promesso e deve assolvere a tale promessa contraria ad ogni logica, contraria agli interessi dei figli, seppure lui si faccia forte di quella scelta per dimostrare l’amore per la defunta moglie e per i propri figli. Ora il tempo, e trasversalmente il contatto con la realtà, è segnato dal volo circolare degli avvoltoi che seguono la bara in cui il corpo della donna, sempre presenza forte come nella prima parte, si fa sentire perché sotto il torrido sole estivo si decompone e puzza, ed è segno tangibile agli occhi di chi incrocia il corteo funebre (di chi gli offre ospitalità, un’ospitalità controvoglia) della disperazione, dell’assurdità, della tragicità dell’esistenza dei pellegrini della follia.

 


Corrodi… corrodi, la risata come meccanismo di disvelamento

aprile 3, 2008

Il protagonista del libro “La caduta” di Camus (1956) in un certo periodo della sua vita è convinto di sentire aleggiare attorno a sé una risata, a cui dà diverse cause e diversi attributi (spiazzante inizialmente, anche gioiosa, e poi sempre più aggressiva). Non è una risata reale, o lo è solo in alcune limitate circostanze. Quella risata è la rappresentazione del giudizio degli altri, ed essa innesca un processo di dolorosa presa di coscienza e crisi che porta il protagonista a riconsiderare l’immagine che di se stesso egli aveva costruito, e che credeva di essere riuscito ad imporre anche nell’opinione degli altri: amici, colleghi, amanti, ma anche sconosciuti. Capisce che il suo essere perfetto (nel lavoro, nello sport, con le donne) in fondo è un’illusione di cui lui si è nutrito, ma che gli altri hanno svelato. La ristata diviene la rappresentazione del meccanismo di una vita forzatamente perbene, ed esibita come tale, che si inceppa. È tutta una sfibrante recita (c’è un riferimento interessante, egli dice di essersi sentito a suo agio quando da giovane si dilettava facendo l’attore; nella ricerca di Camus la figura dell’attore ha un preciso senso e significato), un voler apparire che con il tempo svuota la persona, esaurisce le energie di coscienze limpide e vigili, e in fondo oneste, come quella del protagonista. E la risata è lì, pronta a sottolineare la falsità di questo gioco, e pronta ancora a mortificare chi si credeva al sicuro di una vita all’apparenza ben costruita, solida, ma che non lo è. La risata allora è certo il giudizio degli altri, ma quel sentirla è sintomo della nausea che monta nel soggetto, il primo a riconoscere di star recitando.

Nel racconto di Pirandello “C’è qualcuno che ride” (1934) la dinamica è più o meno la stessa. Se in Camus la risata svela gli autoinganni del singolo, qui invece corrode le certezze della società, di una società però strutturata su regole e rapporti fragili, che come collante hanno l’ipocrisia. La risata che durante il banchetto si leva dal tavolo di una famiglia ha una forza eversiva che da un lato sprigiona autentici impulsi vitali (perciò va contro la castrazione delle regole), e dall’altra è una forza anarchica che fa saltare il collaudato sistema. È una forza disgregatrice di una tale dirompenza che in chi la sente genera disorientamento, poi spavento fino a livelli parossistici, e come conseguenza della paura (e della confusione per non riuscire a cogliere il significato della risata) violenza (lo stesso iter emotivo che segue il protagonista del libro di Camus). Violenza in quanto la risata è una minaccia, scopre l’inganno e l’ipocrisia delle convenzioni del vivere sociale: una società organizzata come struttura cristallizzata a cui meschinamente adeguarsi, mentre sotto la crosta (dietro l’apparenza della maschera, certo autoimposta, ma sulla spinta della pressione proveniente dall’esterno “cosa penseranno gli altri di noi, se non siamo come gli altri ci vorrebbero?”) si agitano gli impulsi: sentimenti di bontà e di malvagità, altruismo ed egoismo ecc. e tutto ciò che non si può mostrare, ma che è meglio tacitare, nascondere, dandogli sfogo in segreto, perché questo è l’uomo, egli è fatto anche di malvagità, egoismo, ecc. e la risata ricorda ciò che siamo, ricorda che non siamo solo perfetti e giusti come ci mostriamo, e che la società non è giusta e perfetta come crediamo. E così sotto gli urti della risata si crepa la maschera. Guai quindi a quella risata di fronte alla quale ci si scopre nudi, nudi davanti agli altri, e soprattutto davanti a noi, alla nostra coscienza, svaniscono le sovrastrutture, gli alibi, le immagini consolanti che di noi abbiamo costruito (e la demistificazione si propaga poi alla società a cui si è dato vita). E ciò che resta, ciò che si scopre è l’uomo con il suo carico di virtù (chi più chi meno) ma anche di vizi, di debolezze, di fragilità e questo è difficile da accettare, specie se si è abituati a recitare una parte. Finzione: come finti sono i fiori che decorano i tavoli del banchetto. L’artificiosità della situazione è corrosa da una risata.


J. D. Salinger un’onesta testa di medusa

marzo 31, 2008

Questo è il commento al libro “The Catcher in the Rye” (il giovane Holden) che fa il personaggio interpretato da Will Smith nel film Sei gradi di separazione: ho finito il libro, è una storia toccante. È comico, perché lui vuole fare tante cose ma non riesce a fare niente. Odia la falsità e sa solo mentire agli altri [si riferisce a “io sono il più fenomenale bugiardo che abbiate mai incontrato in vita vostra”]. Vuole essere ben voluto da tutti, ma è solo pieno d’odio e completamente egocentrico. In altre parole è il ritratto piuttosto fedele di un adolescente maschio.

Salinger è un autore, rispetto ad altri, poco prolifico, ma d’altronde Bukowski scrisse “tre buoni romanzi sono tutto quello che si può chiedere alla vita” che si può ragionevolmente avere dalla vita, aggiungo io. Eppure ha restituito una tale ampia gamma di istanze nella sua ricerca che riesce a sorprendere: l’unicum del giovane Holden (“freddo come i capezzoli di una strega”, Edgar Marsalla e la sua scoreggia, che in fondo è una scoreggia in faccia all’ipocrisia della compiaciuta società perbene), il racconto perfetto in “Alzate l’architrave”. La profondità e la complessità che richiedono al lettore un approccio attento ed ogni volta nuovo, sorprendente nel cogliere sfumature e risvolti, che troviamo nei “Nove racconti” ed in “Franny e Zooey”. Che dire, al massimo: grazie.

Sintetizzando Salinger con le parole di Salinger (non riferite a sé, ma passaggio contenuto in Seymour): “orribile ma giusto, un’onesta testa di Medusa” ogni serpente in quella testa ha qualcosa da dire, qualcosa di diverso rispetto a ciò che ha già detto.


Giudizio sospeso: David Lynch come Paul Auster

marzo 30, 2008

Questa notte (orientativamente verso le 23.30) Rete4 trasmetterà quello che da molti è considerato il capolavoro di David Lynch “Mulholland Drive”.

Lynch per certi versi mi fa pensare allo scrittore Paul Auster, un parallellismo più che di natura formale, cioè che attine alla loro poetica, alla loro ricerca estetica, che riguarda il mio atteggiamento verso le loro opere. Esistono dei punti di contatto tra i due: Lynch propone delle storie spesso con accenti surreali, soprattutto mai scontati, inaspettati, calati in un clima onirico, strutturati su di una narrazione labirintica, complessa, non immediatamente percepibile-evidente; questi stessi elementi si ritrovano in Auster, penso ad esempio alla Trilogia di New York, Travel in the scriptorium, Leviatano. La differenza è che se entrambi hanno un forte potere sul fruitore delle loro opere, che deve necessariamente a loro affidarsi per “capire”, alla mano di Lynch nella regia, a Auster e alla sua scrittura, Lynch non fa mai da guida, lascia il percorso libero, Auster questa responsabilità se la assume, seppure il lettore abbia comunque ampia libertà e rimangano sempre dei fili sospesi nella storia, su cui noi dobbiamo intervenire per colmare alcune lacune (funzionali chiaramente alla storia, non superficialità dello scrittore). In entrambi i casi il ruolo dello spettatore da inizialmente passivo, perché disorientato, deve poi diventare attivo per addentrarsi nelle storie presentate dai due autori, lo spettatore deve mettere in campo la prorpia sensibilità, curiosità, fantasia, cultura ecc. per cercare di dare un senso a ciò che legge o vede (resta aperta la questione se poi a tutti i costi sia necessario cercare un senso razionale e coerente alle opere dei due).

Eppure affrontando Lynch ed Auster, mi pongo la domanda di quanto ci sia di geniale nelle loro opere e di quanto non si tratti di un delibato, esibito, gioco intellettualistico. Sintetizzando: geni o cazzari? O meglio, geni o abili artigiani?

L’idea è che Auster non stia raccontando una storia, ma intelligentemente costruendo un libro; non una trama che presenti un contenuto fatto di emozioni, necessità, personaggi, fatti ecc. ma il cui scopo è presentare Auster, la sua cultura, l’abilità dell’autore che ammicca tra le righe, che appare e si eclissa, in cui le storie sono un continuo intrecciarsi di rimandi, citazioni, non solo di altre opere ma anche creando percorsi interni al libro stesso, ossia una struttura labirintica che gira su se stessa e si apre all’esterno, e che si scopre senza mai svelarsi del tutto. Una storia strutturata su Auster in cui i fatti narrati sono solo un congegno per rendere lo svelamento/scoperta più divertente. La trama non è il centro e lo scopo della narrazione, è solo una strumento, una maschera. Un gioco raffinato, ma pur sempre un gioco e la sensazione è che alla fine io non abbia ricevuto molto dall’autore, che forse più che leggere una storia io abbia partecipato ad una lezione di scrittura.

Per Lynch invece mi pongo il problema di quanto di suo egli riesca ancora a mettere nei suoi film (in senso di ricerca estetica) e di quanto invece non sia ora prigioniero di quell’immagine (etichetta se si vuole) che la critica ha su di lui costruito, di quanto insomma egli non reiteri, esasperandoli, gli stilemi che l’hanno reso famoso, o quantomeno riconoscibile, muovendosi e districandosi in quel confine tra genialità, irrisione di sé e degli altri che gli hanno dato un’identità riconoscibile (ma che forse non gli può appartenere). Quanto egli è prigioniero di quest’identità cristallizzata, e quanto invece libero? Parrebbe che Lynch se ne svicoli, che ogni volta sia in grado di reinventarsi, di stupire.

Non avendo sufficienti elementi il mio giudizio resta sospeso. credo siano due autori che non hanno bisogno di essere compresi o analizzati, o li si ama visceralmente o meglio cambiare aria.