Corrispondenze: i girasoli di Van Gogh come il fiore di Zeami

Maggio 16, 2008

Esiste una precisa corrispondenza, un legame sottopelle, forse forzato (una vertigine non del tutto sotto controllo, senz’altro da rivedere, approfondire, meglio esplicare soprattutto) che trova coerenza unicamente nel mio modo di rappresentare e considerare l’opera dei due maestri: Van Gogh pittore; Zeami attore, teorico, caposcuola del teatro no. Per quanto i due diano vita a due operazioni diametralmente opposte (diverso, ad esempio, è l’elemento  più importante: lo sviluppo nel tempo dell’opera: dilatato quello del quadro, effimero quello dell’attore; cristallizzata la tela, dinamicamente liquida la recitazione), eppure un sottile filo lega i Girasoli di Van Gogh e l’estetica del teatro no elaborata da Zeami. Una corrispondenza data non solo dall’interesse verso la pittura giapponese (ma più in generale verso la cultura del sol levante) di Van Gogh, è più il senso del loro essere artisti e il rapporto che la loro opera instaura (o cerca di fare) con lo spettatore, colui almeno dotato di sensibilità e curiosità, scevro di pregiudizi o intossicato da giudizi già elaborati da altri (critica, storia dell’arte, ecc.), colui che si avvicina all’opera di Van Gogh, come al teatro no, con la mente vuota, pronto solo a riempirla di immagini e suggestioni (categoria pericolosa questa da usarsi perché nell’accezione, o meglio, forma mentis occidentale, pare più un riferimento al pittoresco, al delizioso perdersi, e può risultare fuorviante). Le opere richiedono uno sforzo di comprensione (anche emotiva oltre che contenutistica), una partecipazione che poi deve essere purificata. La mente deve nuovamente svuotarsi. È imprescindibile.

Van Gogh. In breve i Girasoli paiono sintetizzare gli umori di Van Gogh: ci sono i colori del Mediterraneo, colori mai scontati, ma neanche del tutto arbitrari, così distanti per senso e ricerca da quell’Impressionismo a cui spesso, per comodo, lo si associa: “invece di cercare di rendere esattamente ciò che ho davanti agli occhi, mi servo del colore in modo più arbitrario [però nel senso di libero, più che di una scelta che reinventi la realtà] per esprimermi con intensità” fuoco cangiante che brucia nei petali, la corolla è come la corona di una stella in cui prorompe l’intensità di Van Gogh in un dipinto che splende annullando la distanza tra i piani, così il muro sullo fondo ed il vaso posto teoricamente in primo piano, si fondono nella dimensione della luminosità. I Girasoli, più che altre opere, esemplificano in modo diretto e chiaro non solo la ricerca formale di Vincent (almeno in un certo periodo della sua vita), non solo quel suo modo di dipingere attraverso una forza disperata, ma anche come si sentiva il pittore mentre li dipingeva, perché capita che un dipinto di Van Gogh sia Van Gogh “invece di abbandonarmi alla disperazione, ho optato per la malinconia attiva […] ho preferito la malinconia che spera, che aspira”. Ma in questa diacronica esplosione di luce c’è anche il nero delle origini dell’Olanda, e quello dell’incontro con i capolavori del passato dell’arte francese“non è inutile far notare che la cosa più bella che abbiano fatto i pittori di questo paese sia stata dipingere un’oscurità che malgrado ciò ha una sua luce”, un nero diretto immediatamente percepibile in un dettaglio, o nascosto: è la patina di sottofondo che racchiude e costruisce le tonalità ocra.

Girasoli1

Zeami (1363-1443) artista di corte, attore, teorico del teatro no lavora attraversando alterne fasi di successo ed insuccesso legate al favore che di volta in volta lo shogun al potere gli concede o gli toglie, particolarmente proficuo all’inizio della sua carriera fu il rapporto con Yushimitsuo, disastroso alla fine quello con Yoshinori che lo condannerà all’esilio nel 1434, più per motivi extra artistici, nello specifico di natura politica. Leggenda vuole che poi il rapporto venga ricomposto.

Il concetto di fiore (hana) elaborato da Zeami esplica quale dovrebbe essere il rapporto tra attore e pubblico. Il fiore come risultato del coinvolgimento dello spettatore nel vortice della comunicazione artistica, che si manifesta quando l’artista (in questo caso l’attore, ma possiamo traslare nel senso che voglio dare all’analogia al pittore mediato dalla sua opera) ed il pubblico formano, intersecandosi, una sorta di comunità spirituale che partecipa pienamente alla rappresentazione artistica (recita o quadro). Il fiore appare se l’artista sa stupire il pubblico, commuoverlo, catturarlo. Il gesto è elemento necessario per l’attore per creare il fiore, il movimento volutamente non concluso, non del tutto svolto nello spazio, che l’attore mette in atto. È il sottinteso, le possibili combinazioni lasciate svolgersi nella mente del riguardante la vera forza della rappresentazione no, ciò che le dà senso. Il gesto per Van Gogh è la pennellata mai gratuita o fine a se stessa, caricata dal punto di vista espressivo, che ha un senso che va oltre la necessità di costruire una forma o riempire il bianco della tela di colore (come l’attore riempie lo spazio con il movimento). Se l’attore lascia il gesto in sospeso, Van Gogh struttura un linguaggio espressivo necessariamente cristallizzato ma il non detto, il sotterraneo, è il medesimo (ad esempio analizzando la pennellata inserendosi nel labirinto dell’inconscio), l’apertura verso dimensioni di possibilità e suggestioni è identico. Il lavoro è identico, la prassi è la stessa: se la rappresentazione del teatro no si muove nell’alveo dei significati zen, Van Gogh nel suo modo di lavorare ricalca echi della prassi del fare arte nel buddismo: “queste emozioni sono talvolta così forti che si lavora senza accorgersi del lavoro, e che talvolta le pennellate vengono giù una dopo l’altra e i rapporti di colori come le parole in un discorso o in una lettera”

Veniamo al fondo della questione: sia per Van Gogh che per Zeami l’arte, seppur attraverso una diversa dinamica e una diversa tecnica, è un modo per comunicare. Da qui nasce il problema: con chi idealmente dialoga l’attore quando costruisce il fiore, e con chi Van Gogh quando dipinge? Con la totalità del pubblico (possono davvero tutti percepire gli intenti dell’artista?) oppure con un numero di persone di volta in volta diversamente quantificabile (in base a diversi fattori) che hanno comunanza nel sentire (comunanza di spirito) con certe forme d’arte, con l’artista, ecc. creando così un canale comunicativo privilegiato? Chi sente l’opera? Anche qui l’analisi dovrebbe essere diversificata, ancora una volta è il tempo la discriminante per capire: il teatro rappresenta l’opera nell’istante, la pittura di Van Gogh ha già un suo ruolo storicizzato; certo, lo ha anche la trama della storia recitata nel teatro, ma non l’attore però. In entrambi i casi pare opportuno, per trovare un legame comune, spostare la prospettiva dell’indagine sul fruitore dell’opera. Egli, in entrambi i casi, svolge un ruolo attivo, di costruzione e comprensione, non deve limitarsi a pedissequo riconoscimento di qualcosa a cui la storia ha assegnato caratteri precisi (diciamo una forma), perché ciò significherebbe non entrare nell’opera ma scorrervi davanti superficialmente. Il rischio è di non cogliere l’opera ma, a-criticamente, affermare che i Girasoli sono meravigliosi solo perché sono il quadro più riconoscibile e celebrato di Van Gogh. Così non si entra in rapporto con la sua arte, così Van Gogh non ha creato il fiore (sia nel senso di quello che la mimesi per un pittore porta a raffigurare, ossia il girasole in sé, sia quello di Zeami). Non si tratta solo di guardare, ma di spogliarsi idealmente davanti alle opere. Il fiore nasce come rapporto a due; artista/spettatore; il fiore nasce da una sorta di simbiosi, dalla necessità e voglia di capire ciò che si vede, senza trasformare la rappresentazione in un involucro didascalicamente vuoto (e certo non vuoto nel senso buddista), contenitore e depositario di una cultura morta. Percepire (e non solo fare) arte come operazione attiva/viva, per non trasformare i Girasoli in una delle tante opere del discount dell’arte svuotate della vita che l’artista ha infuso in quelle opere, privandole del fiore di Zeami che è un invisibile marchio sulla tela (l’anima?) da decriptare, da riconoscere e ne vale la pena in quanto esso è in grado di traghettare i sensi del riguardante in un luminoso mondo d’intensità e così nei secoli, rigenerandosi, stupendo ogni volta chi osserva, svuotandolo di sé per entrare nell’arte.

“Ma insomma, non è quasi una vera religione quella che ci insegnano questi giapponesi così semplici e che vivono in mezzo alla natura come se fossero essi stessi dei fiori V. Van Gogh [tutte le citazioni sono estrapolate dalle lettere che il pittore scrisse al fratello Theo].


Non è importante

Maggio 8, 2008

“E’ sempre un errore andare in cerca del modello di un’opera d’arte” Otoko, pittrice, protagonista del libro di Y. Kawabata, Bellezza e tristezza, (Utsukushisa to Kanashimi to).

lippi

Filippo Lippi “Madonna con Bambino e due angeli” (1465)


Gli iris di Van Gogh

aprile 24, 2008

Van Gogh: gli iris all’interno del giardino del manicomio di Saint-Rémy.

iris

Dov’è l’orizzonte in questo quadro? Lo vedi l’orizzonte da dentro il manicomio? Lo si può vedere da laggiù, con la faccia per terra a mangiare la polvere in mezzo agli iris? Chi sono quegli iris? Rappresentano dei fiori, certo, in gruppo, nel giardino, insieme. Che apparente caos in quello spazio, caos di forme, sinapsi disgregate, follia? In realtà c’è un preciso ordine nell’oraganizzazione di pieni e vuoti, di masse e colori. La natura si sviluppa nell’ordine, crea e distrugge in modo ordinato e sistematico, la mente umana (che della natura è particella ed emanazione e nemica) crea e distrugge in modo ordinato e sistematico, basta solo individuare l’esatto schema di svolgimento. Il pieno degli iris che si accalcano sulla destra, premono fremono frenano, è compensato dal vuoto del nudo della striscia di terra dalla parte opposta: nuda, perciò sincera, rossa a legarsi con i fiori sullo sfondo, tanti piccoli vecchi decomposti soli sospesi in rifrazioni di verde e nero. Che fanno quelli lì dietro? Perché non riempiono il secondo vuoto, in alto a destra, proprio dietro gli iris (ancora dietro), che cosa c’è in quel vuoto? Quel vuoto serve solo per creare un’altra fascia di equilibrio, questa volta nello sfondo. Già, deve essere così: un pieno-un vuoto, un pieno-un vuoto, davanti e dietro. Stanze vuote, vite vuote, teste vuote, e il pieno? E la compensazione? E l’armonico svolgersi della natura? E gli schemi? Possibile che solo in limitati spazi le proporzioni rimangano in equilibrio? Il margine del dipinto taglia lo spazio, non comprende tutti i fiori, li mutila, ne lascia fuori. E’ solo una porzione di giardino ad essere ordinata. La vita di un uomo è troppo grande per permettere alla natura di riempire i vuoti, per consentirle di alternare vuoto e pieno, per permetterle di mettere tutto dentro? E’ possibile riconoscere il vuoto?

Verde violento di foglie che garriscono al vento (eppure non c’è vento) si sollevano in disperate spirali di morte, come a fuggire, ma non possono, inchiodate al terreno da radici profonde. Viola dissonante di iris confusi dal vento (eppure non c’è vento), forme dai contorni neri, neri, neri, spessi, prigioni? Un solo iris bianco, estraneo, incompleto, in disparte: ti manca qualcosa. Non doveva andare così.

“Capezzoli rosa. Roseo umore, imene. Rose gialle. Lillà violacei. Fiori di cachi: seppellitemi in un mondo di bellezza. Al mio funerale sarò finalmente trattata come un essere umano?” (Y. Kawabata “Immagini di cristallo” – Suisho Genso)

Si crede erroneamente che la follia sia libertà, è solo una forma diversa di solitudine. Tutti uguali, lo siamo, inappetenti alla diversità. Tutti i giorni uguali: noi, il sole, gli iris, ogni singolo atomo dell’universo, l’ameba non muore e non nasce, si rigenera all’infinito, non ha sesso, non fa sesso, non ha gusto, non ha bisogno del confronto… sempre uguale, coerentemente, schizzofreneticamente uguale: non si dà sotto il sole la novità (Qohélet). Anche oggi si svolge da una matassa ordinata di pieni e vuoti una magnifica giornata. Il sole farà crescere gli iris.


Il più bel corto, fanculo le seghe mentali!

aprile 21, 2008


Don’t be light, teoria del nero

aprile 9, 2008

Gerrit Van Honthorst (1590-1656) è il più raffinato dei caravaggisti olandesi, si recò in Italia nel 1610, riportando poi in patria, dove fu pittore di corte degli Orange, la lezione caravaggesca il cui approccio è sempre caricato nella resa luministica, particolare è l’effetto di lume di candela che gli valse il nome di Gherardo delle Notti. Ama strutturare il dipinto usando angoli visuali ribassati (che accentuano la drammaticità della scena) ed elementi di separazione architettonici o scenici (ad esempio tende).

SanSebastiano

Un intersecarsi di onde d’oscurità che riecheggiano un’eco nera, una notte priva di stelle, una notte buona solo per dormire, accesa di una luce che perde il senso simbolico caravaggesco per divenire diacronica rappresentazione di sé. Isole di luce applicate sopra quel nero che sconvolgono al loro interno la natura dei colori, la fagocitano, la blandiscono, la destrutturano reinventandola, placandola, nascondendola, restituendone un simulacro privo di forza, debole. Niente compromessi, niente grigi, niente sfumature, un’antitesi calibrata sul rifiuto, sull’incongruenza, sulla distanza che struttura una totalizzante immagine di luce e nero, un nero netto e definitivo come la morte, lucido e squillante come una lastra d’alabastro, un nero privo di profondità in cui ogni cosa avviene e si muove in superficie. Nessuna opacità, nessuna ombra, e tra luce e nero un confine non intaccabile delineato una volta per tutte, una linea di sostanza vuota priva di colore ed identità. Un confine invalicabile e difatti la luce non compromette mai l’integrità del nero, in cui chimicamente, deliziosamente, necessariamente perdersi in silenzio, perché il silenzio è la qualità di quel nero. Prova ad entrare in quel nero, prova a perderti in quel nero, prova ad urlare in quel nero.

“Quando incontrammo d’anime una schiera/ che venian lungo l’argine, e ciascuna/ ci riguardava come suol da sera/ guardare uno altro sotto nuova luna;”

Dante Inf. XV 16 -19

Air “Don’t be light”


Corrispondenze: bianco e nero, Van Gogh e Elliott Smith.

aprile 5, 2008

“Siamo del tutto d’accordo sul nero in natura. Il nero assoluto non esiste realmente. Ma, come il bianco, è presente in quasi tutti i colori e va a creare la varietà infinita dei grigi – diversi per tonalità e forza. Cosicché in natura, in effetti, non si vedono che quelle tonalità e quelle sfumature” (V. Van Gogh, in una lettera al fratello Theo)

Elliott Smith “Angeles”

van

“Beh, cosa vuoi, quello che uno ha dentro traspare anche al di fuori. Uno ha un grande fuoco nel suo cuore e nessuno viene mai a scaldarcisi vicino, e i passanti non vedono che un poco di fumo in cima al camino, e poi se ne vanno per la loro strada. E ora che fare, mantenere quel fuoco interno, attendere pazientemente eppur con tanta impazienza, attendere il momento in cui qualcuno vorrà sedersi davanti, e magari fermarsi? Chiunque creda in Dio, attende che venga la sua ora, un momento o l’altro” (V. Van Gogh, in una lettera al fratello Theo)


Bacon l’iconoclasta

aprile 2, 2008

Francis Bacon (Dublino 1909 – Madrid 1992) è un artista che intimamente sa di non inventare niente, sa che la ricerca esasperata di “novità” dal punto di vista formale ed espressivo può essere una missione velleitaria; sa che l’artista per certi versi non inventa, ma il suo compito è quello di reinventare, assumere certi stilemi dell’arte reinterpretandoli in modo personale, permeandoli così di una patina di originalità, ed è ciò che egli fa, ed è questa la cifra del suo stile che poi appare nei suoi aspetti costitutivi  inconfondibile e personalissimo. Bacon fa in pittura ciò che T. S. Eliot fa nella poesia. Lo stile di Bacon rappresenta un unicum nella storia dell’arte del Novecento, seppure esso comprenda in sé diverse esperienze di quel periodo.

leris.jpg

 

 

È evidente, ad esempio, nei personaggi che egli rappresenta (ritratto di Michel Leris, 1976), nei loro volti colti nell’attimo del movimento, distorti, sfocati, privi di un unico inequivocabile punto di vista, frantumati in un perdita totale di certezze che pare eco ontologico posto in modo dialettico sul senso dell’esistenza dell’uomo (questo è il nucleo autentico della sua ricerca). Quei personaggi irriconoscibili, ogni volta sconvolgentemente nuovi ed inaspettati, portano con sé riferimenti all’espressionismo tedesco come al cubismo, ricomposti in un nuovo ordine figurativo, e sono echi della ricerca fotografica di Muybridge.

 

inno.jpg

 

 

Bacon che fa gridare tutta l’angoscia dell’uomo al modello Velasquez (Papa Innocenzo X) in uno spasmo cristallizzato d’agonia; gridano i colori violenti, dissonanti, inattesi.  

Lo sguardo di Bacon pare ricomporsi negli interni, diviene spietatamente lucido ed analitico, senza però compiacimento, piuttosto egli appunta l’attenzione sulla drammaticità della vita. Il tratto si fa netto nel delineare la forma, tranne nei volti che rimangono spesso nebulosi.

 

 

bacon37bo.jpg

 

Nell’ “autoritratto” (1973) la figura è inserita in un ambiente vuoto, banale persino, ed il volto di Bacon è irriconoscibile. Quello è l’artista come potrebbe essere qualsiasi altro uomo, e così la solitudine che esprime è di Bacon come di qualsiasi altro uomo. La figura è ripiegata in sé, in una posizione raccolta, diffidente, di difesa, si chiude in quello che è lo spazio intimo per eccellenza: il bagno, da cui il mondo, come gli affetti più cari, sono esclusi. È il luogo in cui l’uomo si presenta nudo a se stesso, senza maschere, solo la cruda realtà di ciò che siamo, solo io che di fronte allo specchio mi guardo, mi misuro, mi confronto. Emergono nel dipinto delle ombre cupe, quasi dense, che alludono ad una certa complessità dal punto di vista esistenziale, persino la lampadina invece d’esser fonte di luce proietta un’ombra netta e pesante sul muro. L’orologio non è un dettaglio scontato, l’evidenza che ha gli conferisce un preciso significato. È una sorta di natura morta, è la materializzazione del tempo e con esso del monito biblico sulla caducità: Vanitas (Hevel). Per Bacon, come ha mostrato nei suoi dipinti, tutto si deforma e tutto si corrompe: Innocenzo X, i volti, la speranza, non c’è via d’uscita da uno stato endemico di angoscia e disperazione. Non crede nella salvezza, egli piuttosto mostra la caduta, la degenerazione, per questo riesce ad essere così brutale, demistificatore e per questo riesce ad essere così onesto.