Il blu di Tokyo (3), pioggia, Murakami (passando per Verlaine)

Maggio 2, 2008

Gli occhi di Naoko si riempirono di pianto, due lacrime le rigarono le guance e caddero con un rumore distinto sulla copertina di un disco. Fu l’inizio di un pianto irrefrenabile. Piangeva con il corpo piegato in avanti e le mani poggiate sul pavimento, nella posizione di chi sta vomitando. Non avevo mai visto in vita mia un pianto così violento. Stesi dolcemente la mano e le toccai le spalle. Sentii il fitto tremito che la scuoteva. Poi, quasi inconsciamente, la strinsi tra le braccia. Continuò a piangere così, in silenzio, e io sentivo il suo tremito attraverso il mio petto. Per le lacrime ed il respiro caldo la mia camicia si inumidì, e dopo un po’ era completamente bagnata. […] Restai a lungo in quella posizione aspettando che Naoko smettesse di piangere. Solo che non smise. (Haruki Murakami – Tokyo blues, Norwegian wood).


Gli iris di Van Gogh

aprile 24, 2008

Van Gogh: gli iris all’interno del giardino del manicomio di Saint-Rémy.

iris

Dov’è l’orizzonte in questo quadro? Lo vedi l’orizzonte da dentro il manicomio? Lo si può vedere da laggiù, con la faccia per terra a mangiare la polvere in mezzo agli iris? Chi sono quegli iris? Rappresentano dei fiori, certo, in gruppo, nel giardino, insieme. Che apparente caos in quello spazio, caos di forme, sinapsi disgregate, follia? In realtà c’è un preciso ordine nell’oraganizzazione di pieni e vuoti, di masse e colori. La natura si sviluppa nell’ordine, crea e distrugge in modo ordinato e sistematico, la mente umana (che della natura è particella ed emanazione e nemica) crea e distrugge in modo ordinato e sistematico, basta solo individuare l’esatto schema di svolgimento. Il pieno degli iris che si accalcano sulla destra, premono fremono frenano, è compensato dal vuoto del nudo della striscia di terra dalla parte opposta: nuda, perciò sincera, rossa a legarsi con i fiori sullo sfondo, tanti piccoli vecchi decomposti soli sospesi in rifrazioni di verde e nero. Che fanno quelli lì dietro? Perché non riempiono il secondo vuoto, in alto a destra, proprio dietro gli iris (ancora dietro), che cosa c’è in quel vuoto? Quel vuoto serve solo per creare un’altra fascia di equilibrio, questa volta nello sfondo. Già, deve essere così: un pieno-un vuoto, un pieno-un vuoto, davanti e dietro. Stanze vuote, vite vuote, teste vuote, e il pieno? E la compensazione? E l’armonico svolgersi della natura? E gli schemi? Possibile che solo in limitati spazi le proporzioni rimangano in equilibrio? Il margine del dipinto taglia lo spazio, non comprende tutti i fiori, li mutila, ne lascia fuori. E’ solo una porzione di giardino ad essere ordinata. La vita di un uomo è troppo grande per permettere alla natura di riempire i vuoti, per consentirle di alternare vuoto e pieno, per permetterle di mettere tutto dentro? E’ possibile riconoscere il vuoto?

Verde violento di foglie che garriscono al vento (eppure non c’è vento) si sollevano in disperate spirali di morte, come a fuggire, ma non possono, inchiodate al terreno da radici profonde. Viola dissonante di iris confusi dal vento (eppure non c’è vento), forme dai contorni neri, neri, neri, spessi, prigioni? Un solo iris bianco, estraneo, incompleto, in disparte: ti manca qualcosa. Non doveva andare così.

“Capezzoli rosa. Roseo umore, imene. Rose gialle. Lillà violacei. Fiori di cachi: seppellitemi in un mondo di bellezza. Al mio funerale sarò finalmente trattata come un essere umano?” (Y. Kawabata “Immagini di cristallo” – Suisho Genso)

Si crede erroneamente che la follia sia libertà, è solo una forma diversa di solitudine. Tutti uguali, lo siamo, inappetenti alla diversità. Tutti i giorni uguali: noi, il sole, gli iris, ogni singolo atomo dell’universo, l’ameba non muore e non nasce, si rigenera all’infinito, non ha sesso, non fa sesso, non ha gusto, non ha bisogno del confronto… sempre uguale, coerentemente, schizzofreneticamente uguale: non si dà sotto il sole la novità (Qohélet). Anche oggi si svolge da una matassa ordinata di pieni e vuoti una magnifica giornata. Il sole farà crescere gli iris.


La necessità di chiamare un luogo “casa”: Kitano ed Asakusa

aprile 15, 2008

Il bisogno di trovare un luogo che rappresenti l’identità, il nucleo autentico di una persona, ciò che egli sente d’essere non solo per affinità di umori e oltre la ricerca del nido sicuro, oltre un orizzonte certo di colori e forme, oltre volti che hanno la qualità del già visto e che innescano schemi di identificazione, un meccanismo di difesa per non perdersi nella folla, e attraverso cui costruire un falso principio di equilibrio. Oltre profumi sparsi da ricomporre in un puzzle che stimoli piacevoli ricordi sepolti nei recessi della mente. Oltre la necessità di tracciare un confine tra “il mio territorio e il resto”, dietro cui tumularsi per escludere il mondo. Piuttosto il richiamo impellente, non conscio e ineludibile, verso un luogo che esercita su di noi un’attrattiva con una tale urgenza da far prorompere stimoli di realizzazione, scoperta di sé in un processo di identificazione empatica. Un ponte sospeso tra noi ed il mondo, da attraversare o da pattugliare, o su cui issarsi per pisciare in testa agli altri.

 

Da “Asakusa Kid” di Takeshi Kitano: Era il 1973, alla fine ero tornato ad Asakusa. Tutto mi ispirava nostalgia. L’enorme lanterna di carta recante la scritta nero lucido “La Porta del Tuono” dipinta con inchiostro di china. La porta laccata rossa e viale Nakamise, con le bancarelle, rosse anch’esse. E il cielo estivo sopra il viale. Le banderuole decorate che roteavano al vento. “Benvenuto ad Asakusa. La sua freschezza e il suo fascino di quartiere popolare!”. Le eterne botteghe d souvenir […] tanta nostalgia mi rassicurava.

 

E io avrei cazzeggiato per tutta la vita? Avevo forse l’intenzione di fare il barman per il resto dei miei giorni? Non avevo altro da fare? Qual era il mio sogno? Qual era il mestiere per il quale ero nato? Più mi ponevo queste domande, più perdevo il senso dell’orientamento, più mi sentivo disgraziato, senza appoggio. Era questo il mio spirito quando improvvisamente mi venne quest’idea: andarmene ad Asakusa e diventare attore comico! […] Non contava più nient’altro che Asakusa […] impossibile resistere a quel richiamo.

 

Le strade del sesto distretto dedicate allo spettacolo e all’intrattenimento sembravano all’improvviso appartenermi. Come anche tutti gli odori  che avvolgevano il quartiere di Asakusa. […] Ero tornato. O forse no, era questo quartiere che attendeva la mia venuta. Cazzo, ecco com’era.

 


Stupiscimi Hollywood

aprile 11, 2008

Anche in film definiti generalmente con l’antipatico termine di “commerciale”, “di cassetta” o “blockbuster” è possibile veder emergere  con intelligenza l’identità, la creatività, la sensibilità, sintetizzando: la personalità e l’estro di un regista, che vi inserisce originali spunti di natura estetica. L’idea è che in fondo ci sia la possibilità di confezionare un prodotto che non sia necessariamente scontato, anche se strutturato su schemi e modi “classici” di larga fruibilità (sia per la trama. che per il montaggio, che per la forma delle sequenze ecc.).

 

 

Steven Spielberg è un regista che non mi ha mai entusiasmato, nonostante ciò dal punto di vista estetico ho trovato molto interessante il suo film “L’impero del sole”, l’interesse in realtà si esaurisce qui, dato che sviluppa una trama a mio avviso farraginosa il cui limite è non aver un preciso obiettivo narrativo, ma tende a voler dire tutto e troppo, inserendo diversi spunti senza mai realmente svilupparli, per cui nella seconda parte del film (da quando il protagonista è internato in un campo di prigionia giapponese) tende a sgretolarsi dicendo poco, risultando persino confusa. Eppure in generale ci sono delle sequenze che mi hanno colpito, perché ben costruite e calibrate: specie all’inizio quando il protagonista, un ragazzino inglese che vive in Cina  dato che lì il padre ha un’industria tessile, perde il contatto con i genitori mentre stanno fuggendo a causa dell’invasione giapponese. Le scene vengono rese anche attraverso una serie di campi lunghi e lunghissimi e campi totali, con angolazioni dall’alto e a piombo. Ciò ha il merito di suggerire, implicitamente, sul piano narrativo diversi spunti che si intersecano in un unico significato per aumentare l’effetto drammatico della situazione e così l’impatto sullo spettatore, che si sente in maniera empatica catapultato nella stessa situazione del ragazzo, quasi vivendola egli stesso: l’idea della vastità del territorio, l’idea della vastità delle conseguenze di una guerra, insieme alla vastità dello smarrimento di un adolescente che si trova da solo in un ambiente ostile. Particolare è la scena, dal clima rarefatto, quasi sospeso, in cui il protagonista, in fuga da un coetaneo cinese che vuole rubargli scarpe e vestiti, passa (l’immagine viene rallentata, ed il momento sottolineato dal punto di vista drammatico da un accompagnamento musicale basato su di un coro che canta) davanti al manifesto murale del film “Via col vento”. La cura per l’immagine evocativa e mai del tutto scontata informa l’intero film, ne rappresenta il vero fulcro e la vera forza sul piano narrativo. Interessante come Spilberg ricrei quel clima da favola a lui caro nella scena in cui nell’oscurità il protagonista si avvicina all’”oggetto del desiderio” un aereo da caccia giapponese (ha la passione per il volo) in riparazione, le scintille della saldatura sono scoppi di luce che accendono di un sentore magico la sequenza (conclusa poi in maniera retorica con i piloti giapponesi che si avvicinano al velivolo e rispondono marziali al saluto militare rivolto loro dal protagonista).

 

Gus Van Sant è un altro regista che, quando entra nel calderone Hollywoodiano, conserva la propria integrità. Prendiamo due film come “Good Will Hunting” e “Scoprendo Forrester”, il primo riesce in maniera godibile e mediamente intelligente (qualcuno potrebbe azzardare furba) a recuperare e rielaborare, nella trama, tutta una serie di stereotipi già noti, il secondo decisamente più zoppicante. Eppure anche in questo caso la mano del regista ci guida in un mondo di immagini mai scontate (al contrario magari di dialoghi e trama, soprattutto del secondo), specie nelle sequenze di passaggio in cui attraverso la messa in campo del protagonista che si sposta, magari dentro al vagone di una metro di superficie, si racconta la città e chi vi vive; lo stesso all’inizio di Scoprendo Forrester dove una serie di piani fissi o di carrellate si susseguono per addizione per costruire un mondo di immagini che non solo descrivono un ambiente, ma ne restituiscono anche caratteristiche peculiari ed umori. Certo anche la musica fa la sua parte, un jazz edulcorato di facile fruibilità ed immediato ascolto, ma comunque interessante e fuori dai consueti schemi.

 

 

 


Don’t be light, teoria del nero

aprile 9, 2008

Gerrit Van Honthorst (1590-1656) è il più raffinato dei caravaggisti olandesi, si recò in Italia nel 1610, riportando poi in patria, dove fu pittore di corte degli Orange, la lezione caravaggesca il cui approccio è sempre caricato nella resa luministica, particolare è l’effetto di lume di candela che gli valse il nome di Gherardo delle Notti. Ama strutturare il dipinto usando angoli visuali ribassati (che accentuano la drammaticità della scena) ed elementi di separazione architettonici o scenici (ad esempio tende).

SanSebastiano

Un intersecarsi di onde d’oscurità che riecheggiano un’eco nera, una notte priva di stelle, una notte buona solo per dormire, accesa di una luce che perde il senso simbolico caravaggesco per divenire diacronica rappresentazione di sé. Isole di luce applicate sopra quel nero che sconvolgono al loro interno la natura dei colori, la fagocitano, la blandiscono, la destrutturano reinventandola, placandola, nascondendola, restituendone un simulacro privo di forza, debole. Niente compromessi, niente grigi, niente sfumature, un’antitesi calibrata sul rifiuto, sull’incongruenza, sulla distanza che struttura una totalizzante immagine di luce e nero, un nero netto e definitivo come la morte, lucido e squillante come una lastra d’alabastro, un nero privo di profondità in cui ogni cosa avviene e si muove in superficie. Nessuna opacità, nessuna ombra, e tra luce e nero un confine non intaccabile delineato una volta per tutte, una linea di sostanza vuota priva di colore ed identità. Un confine invalicabile e difatti la luce non compromette mai l’integrità del nero, in cui chimicamente, deliziosamente, necessariamente perdersi in silenzio, perché il silenzio è la qualità di quel nero. Prova ad entrare in quel nero, prova a perderti in quel nero, prova ad urlare in quel nero.

“Quando incontrammo d’anime una schiera/ che venian lungo l’argine, e ciascuna/ ci riguardava come suol da sera/ guardare uno altro sotto nuova luna;”

Dante Inf. XV 16 -19

Air “Don’t be light”


Corrispondenze: bianco e nero, Van Gogh e Elliott Smith.

aprile 5, 2008

“Siamo del tutto d’accordo sul nero in natura. Il nero assoluto non esiste realmente. Ma, come il bianco, è presente in quasi tutti i colori e va a creare la varietà infinita dei grigi – diversi per tonalità e forza. Cosicché in natura, in effetti, non si vedono che quelle tonalità e quelle sfumature” (V. Van Gogh, in una lettera al fratello Theo)

Elliott Smith “Angeles”

van

“Beh, cosa vuoi, quello che uno ha dentro traspare anche al di fuori. Uno ha un grande fuoco nel suo cuore e nessuno viene mai a scaldarcisi vicino, e i passanti non vedono che un poco di fumo in cima al camino, e poi se ne vanno per la loro strada. E ora che fare, mantenere quel fuoco interno, attendere pazientemente eppur con tanta impazienza, attendere il momento in cui qualcuno vorrà sedersi davanti, e magari fermarsi? Chiunque creda in Dio, attende che venga la sua ora, un momento o l’altro” (V. Van Gogh, in una lettera al fratello Theo)


Le vergini suicide, immagini e musica (le parole ce le metto io)

aprile 1, 2008

La vita è una questione di tempo, la morte è una questione di tempo: “la mia missione è di uccidere il tempo, e la sua di uccidermi a sua volta, ci si sente del tutto a proprio agio tra assassini”. E. Cioran

Scegliere di morire un accidente da calcolare nel tempo, ed in cui il tempo rappresenta la variabile più inesplicabile e dolorosa:vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o no la pena di essere vissuta”. A. Camus

 

Virgin Suicide, Sophia Coppola

 

 “Ho cercato due o tre volte di suicidarmi, ma per un motivo o per un altro non ci sono mai riuscito. Semplicemente non sono un buon professionista del suicidio […] è vero che la vita è insopportabile, solo che alla maggior parte delle persone è stato insegnato a fingere che non lo sia. Ogni tanto qualcuno si suicida, o finisce al manicomio…” C. Bukowski

 

 

The Tenenbaums, musica di Elliott Smith “needle in the hay”

“…perché mi aspetto che la morte sia un bene. Di queste due cose, o l’una o l’altra è morire. Perché o è come non essere più nulla, e il morto non sente più assolutamente nulla, oppure, stando a quel che si dice, è in certo modo un cambiamento e una migrazione per l’anima, da questo ad un altro luogo. […] Se tale è dunque la morte, un guadagno, almeno io, la definisco” Socrate

Cred’io che’ei credette ch’io credesse/ che tante voci uscisser tra quei bronchi/ […] “se tu tronchi/ qualche fraschetta d’un d’este piante/ li pensier ch’ai si faran tutti monchi”. Dante Inf. XIII 25-30

Tutto è così silenzioso attorno a me, e la mia anima così tranquilla. Grazie, o Dio, che in questi ultimi momenti mi fai dono di questo calore, di questa forza […] così vengono esauditi tutti i desideri e le speranze della mia vita! Per battere così freddo, così rigido, alle porte di bronzo della morte. Werther di Goethe

Liberare l’uomo dalla paura della morte ricordando che: quando ci siamo noi la morte non c’è, quando c’è la morte non ci siamo noi. Epicuro

La felicità spinge al suicidio quanto l’infelicità, anzi ancor di più perché amorfa, improbabile esige uno sforzo d’adattamento estenuante, mentre l’infelicità offre la sicurezza ed il rigore di un rito. E. Cioran

Nulla ci appartiene, soltanto il tempo è nostro… vindica te tibi [rivendica te per te stesso]… Seneca